“Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.” Così Edgar Allan Poe mette in evidenza l'importanza del ricordo, la necessità di fermare immagini, sensazioni e fatti per farli memoria. Conservare immagini indelebili non solo in carico alla parte cerebrale dell'ippocampo, oramai definito universalmente sede della memoria, ma con la pratica degli appunti, con i carnets de voyage, con i diari o taccuini di viaggio. Questa pratica fu in uso fin dal medioevo soprattutto per annotare architetture o anatomie. La memoria di un viaggio è affidata al ricordo, un tempo questo era impresso su fogli di carta di quadernetti facili da riporre in tasca. Qualche segno a grafite, a volte riempito con colori di facile reperimento, fissava per sempre un paesaggio, un prospetto, una decorazione, un cielo di nuvole. Accanto al disegno qualche annotazione consentiva di conservare appieno immagini e sensazioni.

Dal XVII secolo ci fu una esplosione del fenomeno del diario di viaggio con appunti e disegni, altresì dato dalla moda del “Grand Tour” che serviva quasi obbligatoriamente da viaggio iniziatico per i giovani di buona famiglia che volevano formarsi in ambito umanistico. Così l’Europa ed in particolare modo, l’Italia erano mete ambite per la formazione del giovane artista o letterato. I taccuini di viaggio o carnets erano d’obbligo per annotare ogni cosa che intercettava l’animo nobile del viaggiatore. Così austeri esteriormente, di solito con copertina nera ed un elastico che ne consentiva la chiusura, all’interno erano tesori di bellezza.

Possiamo ammirare ancora oggi i taccuini di Goethe, autore di un poderoso saggio in tre volumi dal titolo Viaggio in Italia contenente il resoconto completo dei suoi itinerari lungo la penisola. Anche William Turner da accorto osservatore dei fenomeni naturali, utilizzò una innumerevole serie di taccuini che conservano cieli, paesaggi e mari in tempesta. Per non parlare poi di Delacroix, Constable e Gericault prolifici disegnatori di appunti, di idee, spunti e suggerimenti che la natura e l’uomo offrono. Poi venne la fotografia, dalla seconda metà dell’Ottocento con macchine più maneggevoli veloci e “moderne”, queste riproducevano in modo fedele l’immagine, scolorendola però di quel romanticismo che istintivamente finiva nel disegno come liason di riproduzione. La fotografia soppiantò il modo di “portare a casa” il ricordo del viaggio, non comportava la necessaria predisposizione al disegno ed era quantunque più rapida. Ma come disse qualcuno, quando disegni, l’immagine che vedi, attraverso il braccio, ti entra dentro al corpo, mentre la fotografia si imprigiona in una scatola stenopeica che produce la visione dell’oggetto osservato e le immagini non diventano davvero tue.

I più grandi nomi dell'arte del Novecento utilizzarono sempre fogli e grafite per appuntarsi l'idea, i soggetti dei loro futuri lavori. Degas pur scattando foto delle sue ballerine continuò a disegnare i loro movimenti sui taccuini. Come lui, Picasso, Matisse, Chagall, Klee e perfino Hopper sviluppava le geometrie delle alienanti ambientazioni dei suoi personaggi sul quaderno. C'è poco da fare, quando il soggetto è disegnato, viene osservato in mille dettagli e particolari, quasi in una scansione analitica per riprodurlo e per far ciò occorre tempo, occorre un approccio lento all'immagine, una lentezza che sublima il disegnato col disegnatore, così da assorbire il ricordo in un modo più duraturo, quasi metabolizzato, sedimentato. Il viaggio in un taccuino permette di essere ripercorso, reimmaginato, rivissuto, rendendolo inequivocabilmente differente dal sogno, dalla distinzione di Poe, dove forse se ci fosse stato un taccuino accanto al letto per disegnare il viaggio onirico, il sogno sognato diverrebbe anch'esso memoria.