Arrivato a Tawau, nel Sud-Est dello stato malese del Sabah, alcune persone del luogo mi parlano della presenza di una missione italiana nell’isola di Tarakan, oltre confine, nella provincia indonesiana del Kalimantan, e decido di andare a visitarla per conoscere un’esperienza umanitaria singolare, condotta da miei connazionali.

Tarakan è un centro commerciale importante, fulcro dell’approvvigionamento per le aree dell’entroterra e ponte di transito obbligato tra Samarinda e Tawau. Il turista che sosta nell’isola è solitamente in attesa di coincidenze aeree o marittime; gli altri bianchi che s’incontrano sono lavoratori impiegati nell’industria del petrolio (Caltex e Tesoro). L’alternativa predominante agli oleodotti è rappresentata dal boom delle fabbriche di gamberetti surgelati, esportati principalmente in Giappone. Le prime case dell’odierna Tarakan furono costruite nel 1903 a seguito della scoperta di alcuni storici giacimenti petroliferi, i primi dell’Indonesia. Un petrolio puro, già raffinato. Ma Tarakan è conosciuta nel mondo soprattutto per l’inutile strage del 1945. Un fazzoletto di terra con un destino crudo come il greggio e la guerra.

Nell’ambito dell’offensiva nel sud Pacifico, nel 1942 le truppe giapponesi occuparono Tarakan, facente parte delle Indie Orientali Olandesi, motivati dalla presenza del petrolio. Nonostante i giapponesi avessero promesso ai 219 soldati olandesi salva la vita, li assassinarono barbaramente. Quando nel 1944 McArthur decise che l’aeroporto di Tarakan doveva servire come ponte aereo per l’appoggio agli alleati impegnati sul fronte filippino, la guarnigione del Sol Levante era ormai isolata, lontana da ogni rifornimento. Nel febbraio 1945 ebbe inizio l’operazione Oboe: i mezzi anfibi della 26ma. Brigata Australiana sbarcarono sotto un diluvio di fuoco. L’assedio ai 2500 giapponesi asserragliati tenacemente nel centro dell’isola, ricoperta da filo spinato, mine e trappole antiuomo, durò un interminabile mese e mezzo. Agli australiani costò 235 soldati caduti per la conquista di un campo d’aviazione ormai devastato dai bombardieri USA d’appoggio e quindi inutilizzabile. La battaglia di Tarakan non ebbe alcun peso sull’andamento della guerra e fu poi riconosciuta superflua. Un errore strategico.

Le cisterne che dominano la città da un lieve promontorio, i vecchi pozzi a pompa in disuso, disseminati ovunque come i bunker, i resti delle casematte che osservano il mare e il mezzo da sbarco arrugginito sono i monumenti ai due importanti eventi che hanno segnato e sconvolto la storia dell’isola.

La città è articolata su due strade ad angolo retto. La lunga striscia d’asfalto parallela alla costa è dedicata a Yos Sudarso, un eroe cattolico indonesiano, mentre l’estesa periferia ha il proprio centro nel quartiere Marconi, dedicato al noto inventore italiano. Qui risiede la chiesa dei missionari italiani Omi (Oblati Maria Immacolata), giunti in questa parte del continente asiatico nel 1977. Con le diocesi di Tarakan, Malinau e Tanjung Selor abbracciano oggi gran parte del Bulungan, la regione nel Nord-Est del Borneo.

Giunto sulla Jalan Sulawesi, la via in cui ha sede la chiesa cattolica, incontro padre Mario Bertoli di Napoli, il quale con un semplice esempio mi avverte subito della complessità delle cose, dicendomi: “Quando arrivai qui, ammaliato da questo mondo così diverso dal nostro, pensai di scriverci un libro. Dopo tre mesi non pensavo più di scrivere un libro ma solo un articolo. Dopo un anno decisi di non scrivere niente, perché col tempo capisci che non capisci”.

Il clima poi, sottolinea, non aiuta: “In certi giorni l’aria è talmente spessa che pare di respirare dei batuffoli di cotone”. Entrati in canonica, a conferma, apre l’armadio per mostrarmi lo stratagemma della lampadina sempre accesa, giorno e notte, per mantenere l’aria asciutta ed impedire che l’umidità impregni gli abiti. Mi mostra anche i piattini ricolmi d’acqua sotto i quattro piedi della brandina, messi lì per evitare che gli insetti salgano a tormentare il sonno, così come ho visto fare in India.

I dinamici Padri, profondi conoscitori delle culture locali e tenaci viaggiatori, mi dicono che sarebbero disposti ad esaminare eventuali proposte di tre persone, al massimo, intenzionate a seguirli nei loro frequenti pellegrinaggi all’interno della vasta regione. Visitare queste terre semi-inesplorate, accompagnati e protetti da guide in grado di penetrare nella realtà di questi popoli (Kayan, Kenyah, Berusu, Putuk, Tagel e Punan), per i più avventurosi ed alternativi potrebbe costituire una straordinaria opportunità per conoscere il modo di vivere dei nativi, il generoso impegno umano dei missionari ed il rapporto straordinario che si è venuto a creare nel tempo fra di loro, fatto di stima, rispetto e dedizione. Il compenso per realizzare tale esperienza è da concordare, non è esoso e il denaro verrà devoluto alla causa umanitaria, finalizzata ad alleviare i disagi dell’intera comunità Dayak. I Padri sono totalmente dediti all’assistenza delle popolazioni sparse in aree remote ed in gravi difficoltà economiche. Un altro modo per aiutare i nativi è quello di acquistare sul luogo alcuni dei loro prodotti dell’artigianato locale ad un prezzo equo. I Padri sono furiosi per l’avidità dei commercianti che pagano gli oggetti pochi centesimi per rivenderli a prezzi 100 volte maggiori.

La seconda volta che incontro Padre Bertoli è in compagnia di un accigliato ragazzino di 12 anni e mi invita a seguirlo. Stanno andando a medicare un’anziana Dayak alloggiata nel loro Asrama di Jalan Sudarso, alcune casette in legno sul mare costruite per ospitare e dare i primi soccorsi ai bisognosi provenienti dalla giungla. La minuta vecchietta, dal corpo ricoperto di tatuaggi, a causa di una brutta caduta si è procurata un’impressionante ferita alla tempia, ma nessuno ha accettato di curarla. All’ospedale l’hanno semplicemente disinfettata con un po' d’alcool dimettendola dopo pochi minuti con una piccola garza adagiata sulla grossa lacerazione sino all’osso. È in atto una pericolosa infezione. Perplesso per l’indifferenza dei medici e la rassegnazione della donna, ho preso atto dello stato di abbandono di questa gente abituata a contare solo sulle proprie forze. Padre Bertoli, a conferma, alza la maglia del ragazzino per mostrarmi l’enorme cicatrice che attraversa l’addome del dodicenne. Solo sei mesi prima, mentre il giovane stava camminando nella giungla, è scivolato, il macete si è conficcato nel fango con la lama rivolta verso l’alto e lui vi è caduto sopra procurandosi un’orribile ferita all’addome, da cui uscivano le viscere, per fortuna intatte. Tenendosi stretto la pancia con le mani, ha percorso un centinaio di metri per raggiungere il fratello più grande e insieme, senza farsi aiutare, hanno continuato il cammino fino alla barca sul fiume. Arrivato a Tarakan dopo 5 ore di navigazione in mare è stato soccorso dai Padri Omi che lo hanno medicato e ricucito.

Col parroco Carlo Bertolini di Domodossola, invece, prendo nota della sua dettagliata e interessante descrizione del viaggio che ha fatto da Tarakan a Nunukan, l’isola al confine con lo stato malese del Sabah. Il parroco racconta:

Il battello in pratica è un barcone a due piani. Sopra ci sono la cabina di pilotaggio e quattro cabine per passeggeri. Al piano di sotto, in una confusione rassegnata e, in parte, allegra, sono ammonticchiati passeggeri e bagagli, sacchi di riso, borse, sacchetti e scatole di cartone di tutte le dimensioni. Uomini, donne e bambini sono sparsi tra i bagagli: chi seduto, chi già disteso per un primo sonno, chi alla ricerca di una sistemazione, magari sopra la barca di salvataggio o nel sottoscala.

Tutti sono tranquilli come ... come se viaggiassero in prima classe. Per gli indonesiani, infatti, i disagi sono normali. Non si meravigliano, né tanto meno imprecano perché arrabbiarsi è un disonore.

A proposito di disagi, un passeggero dell’isola di Flores che era sul battello, mi ha raccontato di un suo viaggio da Sulawesi al Kalimantan. Tre giorni di mare su una nave stipata all’inverosimile, con pochissimi servizi igienici e acqua da bere ben presto esaurita. Sono morti un vecchio e un bambino, probabilmente già ammalati, non vi è stata alcuna dimostrazione né denuncia. Anche la morte è accettata con fatalismo, come un fatto normale, tanto che non si sta a ricercarne troppo le cause.

Ci siamo sistemati a fatica su di una specie di panca, vicino ai motori del battello, lasciando i bagagli lontani. Generalmente sulle barche il furto non è di casa. Dopo circa mezz’ora dalla partenza è tempo di cenare, infatti, il viaggio dura 12 ore e il prezzo del biglietto comprende anche il pasto.

Per me è stata una cena ... indimenticabile, per fortuna avevamo già mangiato prima! Ecco i preparativi: nello spazio di due metri quadrati, tra la porta della toilette (una sola per più di 100 persone) e un cucinino in cui bolle l’acqua da bere, quattro uomini portano due grosse bacinelle con acqua giallastra. Da un armadio fanno sbucare un pentolone di riso bianco fumante e un altro con pesce cotto in salsa piccante. Depongono tutto sul pavimento insieme ad una ventina di piatti con relativi cucchiai di plastica e comincia la distribuzione. I piatti passano dalla pentola del riso a quella del pesce scivolando sul pavimento viscido. Riempiti, vengono accatastati su piccoli vassoi e distribuiti a turno. I primi cominciano a mangiare allegramente e ... sudano a causa della salsa piccante. I piatti non bastano, perciò entra in ballo l’acqua giallastra delle due bacinelle. I piatti sporchi vengono tuffati velocemente nella prima bacinella e poi nella seconda e sono già pronti per il secondo turno... Io mi sono accontentato di bere un po' d’acqua al primo giro di bicchieri.

Per la notte, senza discussioni né lamentele, ognuno tenta di stendere le gambe per riposare. Ne risulta un groviglio di piedi, mani e teste in tutte le pose e in tutte le direzioni. Fortunatamente gli indonesiani sono molto puliti, normalmente fanno il bagno due volte al giorno. Anch’io riesco a stendere le gambe e ad appoggiare la testa su di un sacco pieno di non so quale prodotto agricolo, ma i motori sono vicini e le vibrazioni non conciliano il sonno.

A questo punto, però, non vorrei che tu pensassi ad un viaggio tormentoso e disagevole… Qui, a differenza del mondo occidentale, l’uomo è padrone del tempo e non già il tempo padrone dell’uomo. Così, anche se il progresso non è presente, in compenso la gente trova il tempo per riposare, se non si può di notte, almeno di giorno!

Incuriosito chiedo altri dettagli a padre Walter che più volte ha fatto lo stesso viaggio di Bertolini. E il racconto continua:

... Il battello porta un nome altisonante: Harapan Mplia che significa Gloriosa Speranza. Ci sono circa 150 passeggeri, però talvolta se ne ammucchiano anche 200. Per buona parte del tragitto il mare è calmo ed il viaggio è dura tutta la notte, dalle 18 alle 4 del mattino seguente.

Talora il corso dell’acqua si stringe ed il battello passa attraverso canali tanto stretti che le palme rivierasche ci obbligano a spostarci dalla coperta per evitare brusche carezze. La cabina sembra concepita per nani, tanto è piccola e stretta da non sapere dove deporre le borse. I due lettini sovrapposti sono troppo corti e obbligano a dormire in posizione obliqua. Da una finestrella entra un po' d’aria.

Dopo mezzanotte comincia a piovere e la pioggia entra anche dal finestrino e giungiamo a Nunukan puntuali, alle 4 di notte, sballottati dal mare ingrossato. Ci hanno fatto scendere solo due ore dopo.

Questo percorso è la via d’accesso alla città malese di Tawau, nel Sud-Est del Sabah. A Tarakan il biglietto si acquista all’agenzia Samudera Indonesia, Jl. Yos Sudarso 18, accanto all’albergo Alam Indah o nel chioschetto all’ingresso del molo SDF. Le partenze sono giornaliere. Il biglietto include un modesto pasto a base di riso bollito e pesce in salsa piccante, ma comunque è sempre e vivamente consigliata una scorta di cibo proprio. Ci si imbarca allo stesso molo, dove ogni giorno, attorno alle 18, uno o più kapal (battello) a due piani partono all’imbrunire per coprire le 44 miglia del viaggio in 10-12 ore di navigazione notturna. Si segue principalmente la costa ma si utilizzano anche scorciatoie con passaggi stretti e paludosi nel delta del Sungai Sembakung. Arrivati a Nunukan, una folla di ragazzini assale il kapal chiedendo di portare le valigie ed offrendo un taxi o un alloggio.

Per il percorso inverso, da Nunukan a Tarakan, il biglietto si acquista in una delle tante agenzie nei pressi del porto, possibilmente uno o due giorni prima dell’imbarco. Il battello è meno affollato di quello del tragitto di andata, quindi le cabine sono più facilmente reperibili. Si parte quotidianamente alle 17 e il viaggio dura sempre 10 ore circa.

Superato un breve tratto di mare ci si addentra nel dedalo di canali, che abbreviano il tragitto tra la miriade di isole lungo la costa. I passaggi sono tanto stretti che i rami degli alberi strisciano lungo le murate del battello. Se la notte è serena, il viaggio è stupendo con il grosso faro sulla cabina di pilotaggio che illumina il percorso e le rive ricoperte di mangrovie e di fusti di palme ricurvi sull’acqua.

(Sede dei missionari Omi: Gereja Katholik, Jalan Sulawesi, Tarakan, Kalimantan Utara, Indonesia)