Federico II di Svevia: “Non invidio a Dio il paradiso perché sono ben soddisfatto di vivere in Sicilia”. All’imperatore del Sacro Romano Impero, morto nel 1250, fu risparmiato (fra l’altro) lo spettacolo delle case progettate da geometri senza orrore di sé, assecondati da troppe giunte comunali. Edifici sbilenchi, con raccapriccianti slanci di fantasia, sfregiatori di tratti di costa e colline panoramiche; ecomostricini che suscitano persino nelle indoli bonarie un desiderio dinamitardo.

Eppure, Federico II continuerebbe a non invidiare Dio. La Sicilia è abbagliante e impareggiabile dove incontaminata ma, assurdamente, in alcuni momenti i suoi raggi di luce e cultura sovrastano pure lo scempio.

Dopo un paio di secoli, insomma, la descrizione di Goethe è ancora valida: “La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita”.

Quindi va difesa. Difesa, senza sosta difesa. Secondo Carlos Vinci con la conoscenza.

Della nascita in Venezuela dove ha trascorso i primi sei mesi di vita, Vinci porta il nome proprio e non si sa quale altra impronta segreta, data la spugnosità dei neonati, ma di sicuro è molto siciliano, cresciuto a Capo d’Orlando. Decenni nel turismo, da indipendente, dopo impieghi alla Olivetti e alla Parmalat e adesso, che è sui sessanta, seppure riccioli e sorriso lo mantengano giovincello, si è ritirato, per come si può ritirare chi è molto addentro alle situazioni, ha fondato l’associazione Sicily North Coast per riunire le eccellenze del territorio, e indaga la Sicilia palmo a palmo. Anzi, una certa Sicilia: quella compresa fra Tusa, l’Alesa Arconidea dei greci, e Tindari. I monti Nebrodi alle spalle e le Eolie davanti o viceversa.

Perché il Nord?

Perché ha delle caratteristiche diverse dal resto dell’isola: è un polmone verde con i tre parchi dei Nebrodi, delle Madonie e dell’Etna. Molti turisti pensano di arrivare in una Sicilia brulla e si ritrovano in un’atmosfera inaspettata. La sorpresa degli scandinavi, per esempio, è straordinaria. Prima di accogliere gli stranieri, ho sempre un po’ timore: mi dico che vengono da un’altra area del mondo, che avranno visto tanta bellezza, ma poi… con i nostri paesaggi non si sbaglia un colpo. Le cascate del Catafurco, il percorso della dorsale, le Rocche del Crasto, la tassita di Caronia, il lago del Biviere. Dentro di me non è mai un’escursione banale: più volte vado alla tassita, più volte mi piace andarci, più volte vado alle Rocche del Crasto più mi piace, e per questo coinvolgo le persone a venirci.

Non c’è il rischio che terre intatte vengano sciupate dai visitatori?

No, io penso proprio alla tutela. La promozione è un fatto positivo, non per un turismo di massa menefreghista e che magari sporca, ma per gli intenditori, gli ambientalisti. Gli alberi monumentali del parco dei Nebrodi, l’acero di Caronia vecchio di 1500 anni, i tassi più a Sud d’Europa, sono un patrimonio che va mantenuto e farlo conoscere alle persone che hanno lo stesso mio obiettivo significa difenderlo.

Ottimista o pessimista sulla tutela?

Abbiamo capito che di solito chi si occupa della cosa pubblica ha altri interessi e vuole solo mantenere il piccolo potere da gestire, ma ho perso l’ottimismo soprattutto perché vedo che il cittadino non vuole educarsi. Questo è grave, oltre al fallimento della politica.

A Capo d’Orlando la speculazione l’ha fatta da padrona e ora non c’è più territorio. La costa che è stata salvaguardata è quella di Torre del Lauro, Caronia, ma perché lì c’è poca gente. Quando si percorre l’autostrada Messina-Palermo, si nota che in quel tratto è vuota, non ci sono imprenditori tanto che le grosse multinazionali che cercano spazio per i villaggi turistici non trovano l’humus giusto e rinunciano. Inoltre lì il parco dei Nebrodi arriva quasi fino alla spiaggia e così quella zona sarà tutelata in maniera naturale.

Qual è il posto più commovente?

Se cerco commozione e, insieme, relax, prendo la strada che sale a Mirto, verso il bosco di Mangalaviti, e mi fermo sui muretti ad ammirare la vallata di Longi. Guardo i paesini che sono rimasti lì, la gente che è rimasta lì. Questi luoghi fermi e queste facce antiche, incastonate nella roccia. Una sicilianità pazzesca. A Frazzanò mi incanta come i ragazzi siano legati alle tradizioni. A dicembre passano di casa per casa, intonando i canti di Natale, per prendere le persone e portarle alla novena. Mi ricordano che da bambino si andava alla novena al buio e si camminava insieme agli altri verso la chiesa. Esistono a Galati Mamertino, a Longi ad Alcara Li Fusi, un po’ in tutti i Nebrodi, i giovani che difendono la montagna.

Meglio da solo?

A volte, ma spesso preferisco condividere con qualcuno che sia curioso. Una persona che non ha interesse è scoraggiante, mi fa sentire noioso mentre racconto con entusiasmo delle donne di Sinagra che raccolgono le nocciole, della salsa di pomodoro, dei dolci di Ficarra di mandorla macinata con la glassa bianca. Delle tracce pagane, delle antiche feste dei giudei, dei Babbaluti (penitenti incappucciati n.d.r.) di San Marco d’Alunzio.

Dei riflessi della cultura del cibo sulla personalità degli abitanti. In alcuni posti cucinano la pecora, io non la mangio, però per loro è un rito: la fanno sotto terra, sotto le tegole, nel forno tutta sigillata. E giugno, il periodo della tosatura? Da solo un pastore non ce la fa quindi tutti i pastori dei Nebrodi si aiutano a vicenda. Sento ancora il suono della forbice, una forbice particolare. Un tempo tutti aspettavano quella lana che era una dote di matrimonio, importantissima e di grande valore: si dovevano fare i cuscini, i materassi. Adesso nessuno la vuole. Abbiamo avuto difficoltà addirittura a portarla in discarica.

Quando è nato l’amore per questa Sicilia?

Nel 1995. Finite le mie precedenti esperienze lavorative mi sono dedicato al turismo e ho pensato di far rifiorire il borgo di San Gregorio (Capo d’Orlando) dove abitavo. È partito tutto da lì. Dalle storie degli anziani, don Carmelo Damiano, don Peppino Glorioso, dalla scoperta del contatto fra San Gregorio e le Eolie. Subito dopo la guerra, la gente delle isole veniva a San Gregorio, su barche con le vele latine, portava capperi, malvasia e prendeva l’olio. Restavano tre giorni, i pescatori di Salina e Lipari. Nel ’95 Sarino Damiano ed io abbiamo portato a restaurare la statua di San Gregorio Magno da un artigiano di Alcara, rifatto la festa e la processione degli anni Cinquanta e un gemellaggio con le isole Eolie. Ero stato oltre un mese a Salina per scoprire chi si ricordava di quei tempi. Ho trovato un solo testimone che portai a San Gregorio.

La prossima scoperta da fare?

Un cultore della zona mi ha detto che all’interno del parco dei Nebrodi ci sono altri due piccoli laghi pressoché sconosciuti, fra quelli di Maullazzo e del Biviere. Mi ci porterà presto.

Dopo le scorribande per mari e monti con Carlos Vinci, non resta che affidare la conclusione all’attore Pino Caruso: “In Sicilia abbiamo tutto. Ci manca il resto”.