Ancora una volta ho sentito il richiamo del deserto ed esattamente del Sahara che, sfiorato in Egitto, scoperto in Marocco, vissuto in Mauritania, più volte in Algeria, in Libia e ultimamente in Sudan, è uno dei luoghi a me più congeniale e ho programmato un viaggio in Niger.

Sentivo il bisogno di allontanarmi per un po’ dalla corsa e dalla rincorsa quotidiane e scoprire il Ténéré, il “deserto dei deserti”, visitare il suo meraviglioso ed unico cimitero dei dinosauri di Gadoufawa e passare per l'importante crocevia dove l’Arbre du Ténéré un tempo si ergeva solitario.

Il celebre albero, un esemplare di Acacia tortilis di 300 anni, considerato l’albero più isolato di tutto il pianeta, abbattuto da un camionista ubriaco nel 1973 e sostituito da un finto albero in ferro, era un punto di riferimento per chi attraversava il deserto e punto di appoggio degli uccelli migratori.

Volevo venire ancora una volta a contatto con i Tuareg, popolo nomade di origine berbera e soprattutto con le Targuie del Niger, donne che mi avevano raccontato bellissime e che, rispetto alle altre donne del Maghreb, godono di privilegi che le rendono più importanti degli uomini.

Ero anche curiosa di incontrare nel Sahel, con un po’ di fortuna, i Wodaabè meglio conosciuti come Bororo, “quelli che non si lavano e vivono nella macchia”. Appartenenti al popolo dei Fulani vivono una vita nomade nell'Africa centrale.

Sono rinomati per la loro bellezza, che i ragazzi mostrano con orgoglio, truccandosi il viso, digrignando i denti e facendo girare i bulbi oculari, nella Gerewol, festa annuale che dura circa una settimana e si svolge tra Tahoua e Agadez.

Durante la festa gli uomini si muovono e danzano anche per farsi notare dalle donne che vengono scelte per giudicare il più bello. Anche le donne sposate hanno l’occasione di ammirare gli uomini e quello che desiderano viene da loro scelto come secondo marito.

Arrivata a Niamey, sorta come villaggio agricolo sulle sponde del fiume Niger e diventata capitale del Niger nel 1926, sono stata attratta dal fiume e mi è venuta in mente una citazione di Erodoto: “Un paese aldilà del deserto dove gli abitanti sono piccoli e neri e dove un gran fiume popolato da coccodrilli scorre da Est a Ovest”.

I Tuareg lo chiamano Gber-N-Igheren, "il fiume dei fiumi": abbreviato in nghe rappresenta la vita al termine delle antiche piste carovaniere del deserto e del Sahel.

La geografia antica pensava che uscisse dal Nilo in un imprecisato punto dell’Africa e l’attraversasse verso occidente. Lungo il Niger esploratori e viaggiatori hanno sfidato l’ignoto inseguendo conoscenza, commerci, conquiste o solo avventura, ma tutti decisi a svelarne i segreti.

Le esplorazioni, a metà Ottocento, hanno risolto il millenario mistero: il fiume scorre a Ovest del continente per oltre quattromila chilometri e sorge tra i monti Loma nel massiccio del Futa Jalon nel territorio della Guinea.

Un’escursione con la pinasse (grande piroga) sul fiume Niger è stata l’occasione per vivere l’atmosfera del fiume e incontrare la sua gente.

Ad Agadez, con le sue strade sabbiose, la sua architettura in fango di stile sudanese, le popolazioni nomadi, Tuareg e Tebu che si mescolano agli Haussa di origine sudanese, ho ammirato il minareto della moschea costruita in banco (argilla e paglia), originariamente nel 1515 e poi rifatta nel 1844, e il Palazzo del Sultano.

Al mercato, che offre al visitatore una carrellata di genti diverse in abiti tradizionali e una ricca scelta di oggetti artigianali, ho acquistato la croce di Agadez, gioiello in argento, considerata potente talismano, solitamente donata dal padre al figlio.

Per raggiungere Iférouane, piccola oasi di montagna posta a 770 metri d’altezza ai piedi dei monti Tamgak, che ci ha fornito freschi approvvigionamenti per la traversata del Ténéré, abbiamo percorso la pista che si snoda tra i rilievi e le minuscole oasi di montagna dell’Aïr.

Il territorio è abitato, in caratteristiche capanne circolari disseminate sotto grandi acacie, dai Tuareg che abbiamo incontrato ai pozzi con le loro mandrie e dai Bellah, loro antichi servitori di origine nera.

Dai racconti sono venuta a conoscenza della loro vita in una terra sì affascinante, ma tanto inospitale.

Gli uomini, se non impegnati con i turisti, sono allevatori di capre, pecore e soprattutto dromedari e si spostano di continuo anche per diversi mesi, per cercare pascoli in corrispondenza di scheletrici boschetti e di ciuffi secchi di marcuba.

Le donne restano con i bambini e hanno quindi un ruolo sociale molto importante. Di quelle incontrate ho ammirato la bellezza, l’abbigliamento e i monili d’argento, ma ho compreso la loro fatica nel vivere la quotidianità.

Nei siti di Kori Dabous e Tezirze ho ammirato i graffiti che raccontano invece la storia millenaria di una popolazione che viveva in un Sahara fertile.

Anche i racconti della nostra guida Tuareg, la sera intorno al fuoco, erano leggende misteriose di oasi lussureggianti, pozzi segreti, tesori nascosti e pietre cadute dal cielo.

Da Timia, oasi molto verde piena di giardini, orti e frutteti, ci siamo diretti verso il Ténéré.

Le sabbie del Ténéré e le alte e sinuose dune di Temet ci sono apparse dopo le montagne dell’Aïr. Il Teneré, che nella lingua dei Tuareg significa “ciò che non esiste”, mi ha lasciato una sensazione di infinito e mi ha fatto scoprire tanti tesori inaspettati. Si estende per 400.000 chilometri quadrati dalla corona del Tassili di Djado a Nord fino al Sahel a Sud, dal massiccio dell’Aïr ad Est alla falesia del Kaouar e all’oasi di Bilma ad Ovest.

La dimensione, i colori del “deserto dei deserti” mi hanno affascinato, come la sua varietà: dune, guglie rocciose, bionde sabbie sferzate dal vento, testimoni di un'evoluzione naturale che si sta ancora compiendo.

Il suo cielo che di giorno, con il suo azzurro intenso, dipinge uno spazio spalancato e di notte, nel buio più assoluto, si riempie di una miriade di stelle, mi ha trasmesso serenità. Al campo, attorno al fuoco e sotto le stelle, mangiare la taghella, ancora calda, è qualcosa di magico che non si dimentica.

Come sulle onde del mare, con le nostre macchine, abbiamo galleggiato per giorni sulla sabbia e, scavalcando e aggirando cordoni di dune abbiamo raggiunto le Montagne Blu, il cui marmo all’imbrunire si tinge di un colore azzurrino.

Abbiamo attraversato l’Erg Brusset e salendo su morbide dune compatte, siamo giunti ad Arakao “chela del granchio”, un anfiteatro di roccia che racchiude un lungo cordone di dune che si è ammassato, creando una delle più alte dune del Ténéré.

Abbiamo visitato i siti di Agamgam e Anakom, ricchi di graffiti preistorici. Nella località di Gadoufaoua abbiamo ammirato i resti delle ossa di dinosauri, vissuti milioni d’anni fa, che il vento, spostando la sabbia, scopre e ricopre continuamente.

Nell’oasi del Grande Erg di Bilma siamo venuti a contatto con le carovane del sale. Bilma, abitata dai sedentari Kanuri e frequentata dai nomadi Tebu, è un’isola verde in mezzo alle sabbie dove, fin dal medioevo, trovano acqua e riposo gli uomini e i dromedari delle carovane del sale.

Le carovane, chiamate in Mali Azalai e in Niger Tarlamt, sono in grado di percorrere sino a 40 km al giorno. In poche settimane coprono la distanza tra le oasi del Kaouar e Agadés, con una lunga e faticosa marcia giornaliera che inizia all'alba e termina al tramonto.

Le saline, situate a tre chilometri dall’oasi di Bilma, si presentano come una serie di fosse a cielo aperto che fungono da bacini di decantazione. L’estrazione è compito dei Kanuri, genti di pelle scura discendenti dei fondatori degli antichi regni del lago Ciad. Gli uomini, riempiendo d’acqua le pozze, ottengono una soluzione salina che subisce una rapida evaporazione. Il sale, così ricavato, è grezzo e granuloso; ancora umido viene polverizzato nei mortai e poi pressato dentro stampi di legno di forma tronco-conica. I Tuareg provvedono al trasporto del prezioso carico di sale, che sarà rivenduto e barattato nei mercati del Sud con miglio e con i prodotti necessari all’economia del nomadismo.

La brutta struttura di tubi di metallo, che ha sostituito l’Arbre du Ténéré, punto di riferimento per le carovane e per i viaggiatori, il cui tronco si trova adesso al Museo Nazionale di Niamey, ci ha annunciato che si stava uscendo dal Ténéré.

Sull’Arbre du Ténéré così ha riferito Michel Lesourd, ufficiale del Servizio centrale degli affari sahariani, nel 1939:

Bisogna vedere l’albero per poter credere alla sua esistenza. Quale è il suo segreto? Come può ancora vivere nonostante le moltitudini di cammelli che gli calpestano il terreno attorno? Come mai i carovanieri non lasciano mangiare ai propri cammelli le sue foglie e le sue spine? Perché i molti Tuareg che guidano le carovane del sale non hanno tagliato i suoi rami per fare il fuoco per il tè? L’unica riposta è che l’albero è tabù ed è considerato come tale da tutti. C’è una sorta di superstizione, un ordine tribale che viene sempre rispettato; ogni anno i membri delle carovane si riuniscono intorno all’albero prima di affrontare la traversata del Ténéré: questa Acacia è diventa per loro una specie di faro, il primo e l’ultimo punto di riferimento quando si lascia Agadez per Bilma, o per il ritorno.

Nel Sahel non ho incontrato i Wodaabè, mi ripromettevo di farlo in altro viaggio, magari nel periodo del Gerewol. Ma sarà difficile poterlo fare, almeno per ora. Nel Sahel infuriano cellule jihadiste, di diversa matrice, che stanno concentrando le forze per impiantare, su queste sabbie dimenticate, un nuovo califfato.

Il gruppo Stato islamico (Is), ha trovato terreno fertile nei Paesi della striscia sahel-sahariana centrale come Mali, Niger e Burkina Faso, dove la crisi umanitaria, l’impoverimento e i conflitti stratificati hanno destabilizzato ampie regioni.

È notizia di questi giorni che, al confine tra il Mali e il Niger, i francesi hanno appena edificato un avamposto per fermare il terrorismo. Per farlo si sono ispirati alle loro fortificazioni rinascimentali.