La narrazione di questo viaggio è frutto di appunti estemporanei presi durante un percorso fatto all’insegna dell’imprevisto, in un periodo storico in cui le tracce del colonialismo europeo, sia a livello sociale che economico, erano ancora presenti e visibili. Nell’Africa australe, la parola apartheid era sinonimo di sottomissione e di discriminazione da cui liberarsi. E così è stato.

Il nostro giro in Africa via terra e con mezzi di fortuna, inizia il 5 gennaio 1979 dal Cairo e durerà undici mesi. A metà percorso ci troviamo nella città di Durban, sulla costa nord-orientale del Sudafrica. Qui si respira subito un’atmosfera greve, diversa dal resto del continente. Il Paese è visibilmente in piena apartheid, regime di segregazione razziale istituito nel 1948 dal governo di etnia bianca e rimasto in vigore fino al 1991. Le parole “Whites Only” scritte ovunque, diventeranno una costante visiva della nostra permanenza nella parte meridionale dell’Africa. Il noleggio di un pulmino Volkswagen Combi a Johannesburg, attrezzato con letti e cucina, ci permetterà poi di estendere l’esplorazione ai Paesi confinanti: Swaziland, Leshoto, Namibia, Botswana e Rhodesia, oggi Zimbabwe. Il nostro intento è quello di viaggiare e vedere il più possibile e se un luogo ci ispira facciamo una sosta per decidere se rimanere o proseguire.

Eccoci, dunque, a Durban a fine maggio, provenienti dall’isola francofona di Reunion. Siamo in tre: la mia compagna Valentina, che ci ha raggiunti alle Seychelles, e l’amico Aldo, col quale ho condiviso questa esperienza fin dall’inizio. Da Reunion avremmo voluto andare prima in Madagascar, sotto il regime comunista, ma con quel visto sul passaporto ci sarebbe stato negato l’ingresso in Sudafrica. Già all’arrivo all’aeroporto fa un certo effetto vedere sedie e bagni divisi tra “Bianchi” e “Non Bianchi”. Subito ci viene spiegato che nella classificazione dei bianchi, non formalizzata, vengono prima i cinesi e tutti i “musi gialli”, poi a seguire gli indiani e infine i neri. Gli indiani comunque sono quelli percepiti come i più inaffidabili. Anche sui bianchi ci sono pregiudizi e distinguo, ad esempio, i latini sono considerati inferiori ai nordici in quanto non di cultura e lingua anglosassone. Il nostro primo impulso è quello di rifiutare tale sgradevole ingiustizia, tuttavia è una realtà talmente fuori dai nostri schemi mentali che ci incuriosisce. Adesso vorremmo cercare di capire meglio, attraverso l’annotazione dei semplici dettagli del quotidiano, come venga gestita nei fatti una simile e così estesa separazione. Alloggiamo allo spartano Rydal Mount Hotel in Gillipsie Street, nel cuore del quartiere balneare di South Beach. La città è piacevole, ordinata e facile da percorrere, con un’ampia spiaggia riservata ai bianchi ed un lungomare punteggiato da eleganti boutique, accoglienti caffè e ristorantini, invitanti pasticcerie e gelaterie, discoteche, locali notturni vari ed ovviamente gioiellerie che offrono una miriade di brillanti e brillantini a prezzi convenienti. Entriamo in una di queste, giusto per curiosare e prendere nota dei vari tipi di taglio e le loro sfaccettature. La spiaggia è piena di giovanissimi surfisti che si esercitano su onde medie costanti. Le ragazze si muovono con disinvoltura coperte da minuti bikini tanto che non ci pare più di essere in Africa, ma in occidente. Sia gli alberghi che la vita in generale sono più economici e di qualità superiore ai paesi visitati strada facendo. I negozi e i ristoranti sono molto forniti, il cibo costa meno e viene offerta una maggiore varietà di scelta. Alla galleria del Dudorc Centre, di fronte al ristorante La Dolce Vita, troviamo sia i giornali italiani che i salumi di Modena, nel banco delle italiche prelibatezze. La giovane salumiera originaria di Lucca, ci prepara tre prelibati panini ripieni di salame a scelta e grana, indiscutibilmente gratuiti. La ragazza lamenta furti, aggressioni e omicidi, la sua bottega è stata assaltata un paio di volte: “La vita in Italia, nonostante tutti i problemi che ci sono è ancora una pacchia, se paragonata a quella in Sudafrica. Di tutto ciò che succede il governo non informa la gente per timore che i bianchi abbandonino il Paese”. E aggiunge: “Per gli italiani che vogliono lavorare qui non ci sono problemi, basta entrare in un Employer Office e c’è l’imbarazzo della scelta. I bianchi in Sudafrica sono solo il 18% e le autorità agevolano l’inserimento degli occidentali”. Tuttavia qui ci troviamo in una realtà molto complessa, lontana dai nostri criteri di giudizio: “In Sudafrica, come in Rhodesia, gli uomini entrano nell’esercito a 18 anni e fanno servizio tre mesi l’anno per vent’anni. È gente dura, un misto di tedeschi, olandesi e inglesi. Se c’è la guerra, nessun problema, prendono le armi e vanno. Adesso li mandano al confine tra Namibia e Angola, dove ci sono scontri con i guerriglieri. Sono molto nazionalisti, pronti a morire per la patria”.

Anche la loro lingua ha un suono ruvido e greve per noi latini. L’Afrikaans, sintesi di “afrikaan hollands” (olandese africano), è una lingua germanica occidentale, introdotta nell’Africa australe dai coloni boeri, così vengono chiamati i contadini olandesi nel XVII secolo. Inoltre, anche se le ex colonie tedesche di Namibia e in parte Botswana sono state forzatamente cedute alla fine della Prima guerra mondiale, i suoi coloni di lingua e cultura germanica sono rimasti. Aldilà delle legittime critiche espresse di tanto in tanto dagli italiani residenti, a noi sembra che i bianchi vivano ancora benissimo in questi territori, anche se percepiamo che la situazione è implosiva e premonitrice di un cambiamento.

Il vivace e ciarliero pescivendolo calabrese del banco accanto alla salumiera, con generosità tutta italiana ci offre l’assaggio di un pesce chiamato “tropical sun” che pomposamente definisce il “più buono al mondo”, precisando che è più buono anche del barracuda. Non sono esperto di ittica ma una cosa è certa: è davvero squisito. All’ingresso di cinema, ristoranti, bar, locali da ballo, pub o birrerie, chiamati shebeen, negli stessi depositi bagagli e sulle panchine pubbliche, troviamo sempre la scritta “Whites Only” e “Colored and Asiatic Only”. Stessa cosa per gli ascensori: neri e asiatici vanno a piedi.

Il cuore della città si colloca attorno al City Hall ed è caratterizzato da palazzi d’epoca ben conservati. Appena fuori dal centro troviamo moschee e templi Indù e la bella costruzione in stile moghul-moresco del Victoria Street Market che mi ricorda la stazione dei treni vista a Kuala Lumpur, nel tipico stile coloniale britannico. È un affollato bazaar pieno di bancarelle ricolme di frutti, verdure e pesce, mentre il piano rialzato è occupato da negozi di tessuti di seta, manufatti ed oggetti in ottone orientali. Entriamo, sempre per curiosare, all’Odissea 2001 Disco: luci psichedeliche, buona musica ed ovviamente solo bianchi, tutti ubriachi che saltano in mezzo alla pista in modo smodato. All’uscita, vediamo un anziano signore sorridente che usa il suo frustino di nervo di bue sulle gambe nude di un ragazzo di colore al solo scopo di allontanarlo. Molti uomini, poliziotti e non, portano il frustino in cintura e sempre pronto all’uso. I poliziotti neri pare siano più brutali dei colleghi bianchi, probabilmente devono convincere di essere all’altezza del compito. Ci dicono infatti che la notte scorsa in pieno centro e a poca distanza dal nostro hotel, hanno ucciso un poliziotto nero forse per rappresaglia. Davanti al Castillon Disco, il locale dei più facinorosi, assistiamo invece ad una violenta e sanguinosa scazzottata che ci ricorda le scene dei film fra bande americane degli anni ‘60. Se paragonato al resto del continente africano questo è decisamente un pianeta a parte, con un’atmosfera pionieristica d’altri tempi, molto più affine all’Australia ma con maggiore violenza. Qui sciopero e socialismo sono illegali.

Interessanti sono i manifesti delle agenzie di viaggio che propongono svariate possibilità di trans-africana percorsa in camion da Città del Capo a Londra in 16 settimane, attraverso 16 Paesi. Alle comitive di turisti i tour operator locali offrono escursioni ai parchi nei dintorni dove è possibile vedere elefanti, zebre, rinoceronti, leoni, uccelli esotici e quant’altro. Mi annoto una informazione storica che trovo affissa alla parete in una di queste agenzie: “Il porto che Vasco de Gama chiamò Natal, venne ribattezzato Durban in onore del governatore Benjamin D’Urban, dopo che nel 1824 Shaka, capo degli Zulu, consegnò la terra agli inglesi.

Siamo seduti sulla Marine Parade, la via parallela al lungomare, quando un furgone Volkswagen si arresta davanti a noi con il motore in panne. Ci offriamo nel dare una spinta al mezzo, quando un ragazzo senza il piede destro ci supera lentamente in carrozzina e, con un luminoso sorriso e una sana ironia anglosassone, si scusa per non poterci aiutare. Racconta che, mentre faceva surf, è stato attaccato da un pescecane che gli ha tranciato il piede di netto. È uno dei frequenti incidenti che accadono in questo tratto di oceano, messi in luce dalla mostra fotografica che il giovane ci suggerisce di visitare e allestita in Municipio. La rassegna ha lo scopo di allertare i bagnanti attraverso le immagini di centinaia di vittime dei pescicani. Apprendiamo così che nelle acque di fronte, ricche di relitti di navi e di siti marini visitati dagli amanti dell’immersione, sono presenti ben 27 tipi diversi di squalo che attaccano l’uomo.

Ci rechiamo poi al porto perché il mese prima a Mogadiscio, essendo tenuto d’occhio dalla polizia somala in quanto fotografo, avevo dato in custodia tutti i rullini a Pasquale, un marinaio della nave italiana Roberto Emme della linea Messina, per evitare problemi e la confisca dei rullini all’uscita dal paese. Dovevamo trovarci al porto di Mombasa o di Durban ma purtroppo, in entrambi i casi, siamo arrivati in ritardo e la nave era già ripartita. Pazienza, una volta in Italia, come da accordo preventivo, li andrò a prendere da Pasquale in Toscana. Scoprirò in seguitò che lui per amicizia accettò di aiutarmi ma poi per paura diede luce a tutti i rullini cancellando così testimonianze d’eccezione. Ci distraiamo dall’accaduto all’Aquarium, tra squali, mante giganti ed il classico show di delfini e foche.

La sosta a Durban è terminata e decidiamo di raggiungere lo Swaziland seguendo la costa verso nord. C’è un treno che partendo alle 22, in 15 ore percorre 250 km fino al confine di Golela, ma preferiremmo viaggiare di giorno per vedere il panorama. Una volta giunti pare sia comunque un problema attraversare la frontiera per Lavumisa, causa la mancanza di mezzi. Esiste anche un servizio di autobus da Durban sino a Mtubatuba ed oltre, ma è solo per neri, proibito ai bianchi. Proviamo a fare l’autostop sulla Marine Parade ma perfino i camionisti non accettano di caricarci. Ci avvertono che in Sudafrica l’autostop non è praticato perché considerato pericoloso. Non ci resta che prendere il treno delle 22. Nella sala d’attesa della stazione entrano solo i bianchi, gli altri aspettano fuori al freddo. Lamento che non è cosa giusta e il signore della sedia accanto ci spiega, garbatamente, che l’odore di sudore dei neri è molto forte, “puzzano tremendamente”. Ci tiene però a precisare che ancor più dei neri non ama gli indiani, ritenendoli scaltri e bugiardi. È un punto di vista legato forse al fatto che la comunità indiana a Durban è numerosa e ben radicata, giunta in massa alla fine dell’800 per lavorare nei campi di canne da zucchero e nella costruzione di ferrovie.

Siamo in seconda classe su un treno vecchio ma piacevole, con lo scompartimento tutto rivestito in legno e ben tenuto, arredato da due ampi letti, stipetto, specchi e lavandino in puro stile coloniale. Aldo ha due letti tutti per sé. In fondo al treno, un paio di vagoni sono riservati ai non bianchi. Il controllore incuriosito da tre giovani “turisti” allo sbaraglio vuol sapere tutto di noi per tutelarci. Si chiama Bart, di origine boera ed è molto cordiale. In genere i bianchi con i bianchi sono gentilissimi. Ci avverte che sarà un grosso problema proseguire per la città di Manzini perché gli unici bus oltre il confine crede siano solo per neri e non ci sono altri mezzi. Solo giungla. Sottolinea che fare l’autostop con i bagagli ed in compagnia di una donna può essere pericoloso perché sia neri che indiani hanno facilità nell’usare il coltello: “Salite solo se sono bianchi e vestiti propriamente, non fidatevi neppure dei bianchi capelloni, quelli un po’ strani, può essere rischioso anche con loro”. Un avvertimento non proprio rassicurante e da non sottovalutare.

Notte fredda, il riscaldamento del treno non funziona e le coperte non sono incluse, si possono però affittare dal cuccettista. Stiamo viaggiando nella mitica Zululand, la terra degli Zulu, un popolo dallo sguardo fiero e dai lineamenti armoniosi e gradevoli. Nella loro lingua il nome deriva da “amazulu” che significa “gente del cielo”. Lunga sosta notturna alla stazione di Mtuzini e Bart approfitta per raccontarci la singolare storia della cittadina legata ad un certo John Dunn, il primo europeo ad insediarsi in questo remoto territorio. In pochi anni John, d’origine inglese, divenne una sorta di capo bianco degli Zulu, con ben 49 mogli che gli diedero ben 117 figli. Questo fu possibile perché durante la sua infanzia il padre gli acconsentì di crescere assieme ai nativi. All’età di 14 anni il padre venne però ucciso da un elefante e la madre morì tre anni dopo, quindi John crebbe orfano assieme ai nativi, integrandosi nella loro cultura e nella loro lingua. Divenne così intermediario tra le parti in conflitto nella guerra anglo-zulu del 1879, voluta dal Regno Unito per annettersi il Regno Zulu, conflitto vinto dai colonialisti britannici che costò migliaia di vittime. Alla fine a John venne imposto di scegliere da che parte stare e lui scelse i britannici.