La lettura di La via per l’Oxiana di Robert Byron mi ha fatto desiderare di percorrere la Via della Seta. L’espressione fu coniata alla fine del XIX secolo dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen per definire l’insieme di itinerari e percorsi che per secoli hanno unito l’Oriente all’Occidente.

La Via della Seta non è stata utilizzata solo da mercanti ed eserciti e calcata da lunghe carovane di cammelli battriani carichi di spezie, ma vi sono transitate, da una direzione all’altra, varie religioni dallo zoroastrismo, alla mistica sufi, dal cristianesimo all’ebraismo, dal buddismo all’islam e molteplici culture.

Non mi è bastato viaggiare con l’autore, ho voluto scoprire, in diversi viaggi, i suoi luoghi, i monumenti e soprattutto le sue popolazioni.

Il viaggio in Uzbekistan (già Turkestan) è stato una vera escursione fra mito, storia e realtà. Situato nel cuore dell’Asia centrale tra steppe, deserti e montagne, questo Paese ospita alcune delle città più antiche del Mondo: Samarcanda, Khiva, Bukhara e Shakrisabz. Tutte e quattro Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

L’attuale Repubblica dell’Uzbekistan, dove l’islam sunnita è professato dalla maggioranza della popolazione, indipendente dal 1991 dopo più di un secolo di dominazione russa, fa riferimento per la propria identità storica a Tīmūr Lang (Tīmūr “lo zoppo”, Tamerlano) che alla fine del Trecento conquistò il mondo da Costantinopoli ai confini dell’Impero Celeste e dalla Russia all’India del Nord, fondando l’Impero Timuride.

Personaggio enigmatico che mi ha sempre incuriosito. Appartenente a una tribù turco-mongola, si considerava un discendente di Gengis Khan. Secondo i suoi nemici fu il conquistatore più feroce della storia, ma fu anche protettore di poeti, scienziati e artisti. Si tramanda che poteva agevolmente sostenere una discussione filosofica, geografica o di storia antica e fece anche costruire splendidi edifici.

La scoperta di questo Paese è iniziata da Khiva, città carovaniera capitale nel XVI secolo del regno Timuride. Per raggiungerla abbiamo attraversato il deserto del Kizilkum, costeggiando il confine con il Turkmenistan lungo un percorso che ancora nel XIX secolo era infestato da predoni in cerca di ostaggi da vendere al mercato degli schiavi, per cui la città era tristemente famosa.

Khiva, nel periodo di dominazione sovietica, fu sottoposta a un restauro che l’ha congelata nel tempo, trasformandola in una sorta di museo all'aperto. È divisa in due parti.

Chan Qala “fortezza interna” è la parte antica che è racchiusa da possenti mura ad andamento sinusoidale, costituite da una serie di torri giganti e panciute, semicircolari e merlate, che si alternano a ritmo regolare. Costruite in pisé e mattoni crudi, hanno quattro porte e custodiscono circa 50 monumenti tra cui moschee con cupole e minareti dai raffinati ricami, oltre a 250 tra abitazioni e palazzi.

Dishan Qala è la parte esterna e moderna. Vagando nella parte interna sono stata affascinata dal Mausoleo di Pakhlavan Mahmood, uno dei più belli della cittadina. Si riconosce per la mastodontica e brillante cupola verde smeraldo. L’interno, in stile persiano, è un tripudio di maioliche blu. È dedicato a Pakhlavan Mahmood, filosofo, sufi, poeta e artista, ma anche lottatore. Vissuto a Khiva tra il XIII e il XIV secolo, è venerato come santo guerriero dell’islam ed è divenuto poi patrono della città.

Ho visitato insieme a tante famiglie locali, con tanti bambini festosi, le moschee d’estate, con le alte colonne intagliate in legno di olmo o di sandalo e i recinti delle grandi madrase, dove per secoli i ragazzi sono entrati per studiare da imam, mentre oggi ci sono botteghe di souvenir e piccoli bar dove sorseggiare tè verde o caffè turco.

Per immergermi totalmente nella folla locale e per conoscere meglio la popolazione, ho visitato il Caravanserraglio di Allah Kuli Khan che, all'epoca della Via della Seta, era un luogo di riposo per i carovanieri, e ho fatto un rapido giro nel Tim bazar che tutt’oggi ospita un mercato coperto. Mi sono lasciata incantare da un turbinio di suoni, luci e dal cromatismo delle varie specie di frutta e dal profumo delle innumerevoli spezie in esposizione.

Mi sono anche recata per una seduta all’hammam utilizzata dai commercianti del bazar per le abluzioni quotidiane e mi sono lasciata trasportare in un mondo magico, fatto di profumi e dolci melodie da “Mille e una notte”.

Non per niente uno dei proverbi uzbeki recita:

Tre cose l’uomo non si stanca mai di guardare: l’acqua, il fuoco e il bazar.

A Samarcanda - distrutta nel 1220 da Gengis Khan e ricostruita nel 1370 da Tamerlano - storico crocevia della Via della Seta, ispirazione di poeti scrittori e musicisti, testimone non sempre felice del trascorrere della storia e dei popoli, ho colto come la moderna città, dai grandi alveari russi, si scontri con il medioevo dai mosaici colorati, a volte restaurati in malo modo, e dai bassorilievi delle tre madrase della piazza del Registan “luogo di sabbia” o “deserto” in persiano.

La piazza risale al 1400 quando Ulug Beg, nipote di Tamerlano e grande scienziato appassionato di matematica e astronomia, fece costruire la prima madrasa a lui intitolata e nella quale, oltre al Corano, si insegnavano la matematica e le scienze. Nel 1420, costruì un suo osservatorio alto all’incirca 30 metri, di tre piani, su una collina rocciosa nei dintorni di Samarcanda, magnificamente decorato con piastrelle smaltate e lastre di marmo.

Sugli altri due lati della piazza si trovano altre due madrase di epoca successiva. Poco lontano ho visitato l’imponente moschea dedicata alla cinese Bibi-Khanum, moglie favorita di Tamerlano. Una leggenda racconta come l’architetto incaricato della costruzione si fosse innamorato di Bibi-Khanum e ritardasse volutamente la fine dei lavori, minacciando di fermarli se lei non gli avesse concesso un bacio sulla guancia. Dopo molte esitazioni lei acconsentì e nel punto del bacio appassionato comparve un’ustione; allora Bibi-Khanum, per non essere scoperta da Tamerlano, ordinò che tutte le donne indossassero il paranja. Però Tamerlano lo scoprì e la fece gettare dal minareto appena costruito. Un’altra versione racconta che Bibi-Khanum si salvò e che fu Tamerlano a ordinare l’uso del vestito integrale perché gli uomini non potessero desiderare le donne altrui.

Sempre a Samarcanda mi ha affascinato la necropoli di Shah-i Zinda “la tomba del dio vivente” testimone della storia di questa città. I suoi edifici, se ne contano quaranta, sono ornati con decorazioni considerate tra le più belle del mondo islamico. Sono moschee e mausolei, aggiunti in un periodo di nove secoli.

I primi che si incontrano, entrando da un cancello, sono il Mausoleo di Shirin Bek Ata sulla destra e il Mausoleo di Shadi Mulk Oko sulla sinistra; questi sono le tombe rispettivamente della nipote e della sorella di Tamerlano. Entrambi gli edifici sono ricoperti da piastrelle originarie di maiolica e terracotta azzurre, bianche e blu. Secondo una leggenda c’è anche il sepolcro di Kusam Ibn Abbas, cugino del profeta Maometto.

Non poteva mancare la visita alla tomba di Tamerlano, dei suoi figli e nipoti nel Complesso di Gur-i Amir che è in stile azero ed è stato un modello per le posteriori grandi tombe dell'architettura Moghul.

Tra absidi decorate con muqarnas in stucco a stalattite e pareti in lastre di onice, un enorme blocco di giada-nefrite arrivato dalla Cina, di un verde tanto scuro da parer nero, segna il luogo della cripta dove da sei secoli giace il suo corpo. La tradizione vuole che la tomba fosse legata ad una maledizione che avrebbe colpito chiunque avesse cercato di violarla.

Tamerlano aveva costruito per sé una tomba di minori dimensioni a Shahrisabz, sua città natale, ma quando morì nel 1405, mentre stava organizzando la sua campagna per la conquista della Cina, tutti i passi di montagna che conducevano a quella località erano inagibili per la neve e dovette essere seppellito a Samarcanda.

A Shakrisabz, la “città verde” per i suoi giardini, ho ammirato le rovine del Palazzo Ak-Aaray “palazzo bianco”, così chiamato per sottolinearne le nobili origini. I lavori di costruzione, voluti da Tamerlano, iniziarono nel 1380 e si protrassero per circa 25 anni. Gli elementi rimasti (la torre-entrata centrale e le sue decorazioni smaltate) sono testimoni della sua maestosità ed estrema raffinatezza. Ruy González de Clavijo, ambasciatore di re Enrico III di Castiglia, nel suo Viaggio a Samarcanda 1403-1406 ha scritto:

La sontuosità e la bellezza di questo palazzo sono tali che è impossibile descriverlo adeguatamente, ma bisogna vederlo di persona.

Inoltre a Shakrisabz ho ammirato la gigantesca cupola turchese che sormonta la Moschea di Kok Gumbaz completata da Ulug Beg tra il 1435 e il 1437. Le pareti interne, dai colori dorati, sono dipinte con elementi floreali, palmette e arabeschi. Sul lato opposto della moschea si trova il mausoleo che Tamerlano fece costruire per la sua guida spirituale Shamsiddin Kulol e di fianco Ulug Beg fece poi erigere un secondo mausoleo per i suoi familiari.

A Bukhara, ho visitato i palazzi, le madrase e i caravanserragli testimoni degli importanti commerci del passato e non ho resistito e ho comprato un piccolo tappeto Bukhara. Anche Marco Polo, che visitò l’Asia centrale nel XIII secolo, ha ammirato il lavoro degli artigiani locali, scrivendo nelle sue memorie:

I tappeti più sottili e belli del mondo sono fabbricati a Bukhara!

La città venne distrutta da Genghis Khan e successivamente Tamerlano ne fece un florido centro culturale, religioso e commerciale disseminato di moschee e madrase. Tra i secoli XIV e XV a Bukhara insegnarono i più importanti maestri sufi, fra cui Shah Baudini Naqshband, fondatore della più importata confraternita mistica musulmana, tarīqa, tuttora attiva.

Nel mio girovagare mi sono imbattuta nella statua di Shah Bahuddin Naqshband in sella al suo asinello. È un saggio sufi pazzerello, davanti al quale gli uzbeki si facevano fotografare, così come ho visto fare, specialmente dagli sposi, davanti alle statue di Tamerlano.

Di giorno la città risuona dell’invito del muezzin, che dal minareto richiama i fedeli alle cinque preghiere; alla sera, complice il crepuscolo, le sue mura di fango diventano arancioni, i monumenti si illuminano e tutto assume un aspetto magico.

Il viaggio si è concluso con una veloce visita alla capitale Taskhent che è una metropoli plasmata dal potere sovietico che nulla può al confronto di Bukhara, Khiva e Samarcanda. Sono andata nel suo bazar a curiosare tra pile di meloni, pomodori e pentoloni fumanti di plov, il piatto nazionale uzbeko a base di riso, carote e carne.

Non solo la bellezza delle sue città, dalla straordinaria architettura e il colore dei mosaici mi hanno affascinato, ma anche la sua popolazione variegata non mi ha lasciato indifferente.

In Uzbekistan si sono susseguiti innumerevoli regni e imperi. Ognuno di essi ha lasciato tangibili segni e ha contributo a crearne l’anima, grazie alla Via della Seta che fu punto di incontro e non solamente luogo di passaggio di tante popolazioni, culture e tradizioni.

L’Uzbekistan ha fatto parte dell’impero Achemenide. Una dinastia reale di origine persiana che si stabilì nell'Asia centrale nel VI secolo a.C. fino all’invasione macedone di Alessandro Magno. Nel periodo Omayyade giunsero nella regione gli arabi, a cui subentrarono i turchi, poi Gengis Khan e Tamerlano. Nella seconda metà del XIX secolo, è stato annesso, come gran parte dell'Asia centrale, alla Russia. Nel 1924 è diventato una Repubblica Socialista Sovietica e ha fatto parte dell'URSS per circa 70 anni.

A causa dell'alto numero di invasioni avvenute nei secoli, la moderna popolazione usbeka presenta notevoli variazioni etniche: occhi azzurri si mescolano a carnagioni scure o capelli biondissimi a occhi scuri a mandorla. Gli Usbeki debbono il loro patrimonio genetico ai popoli mongoli e a quelli iranici, con significative mescolanze con le etnie caucasiche.

Nel mio vagabondare per la città ho imparato a riconoscere dai loro costumi, soprattutto dai copricapi, le varie etnie: gli Uzbeki che costituiscono il gruppo etnico principale, i Russi, i Tagiki, Kazaki e Caracalpachi di origine turca.

Ricordo con piacere che, nel mausoleo di Bakhautdin Naqshband, donne, uomini e numerosi bambini, dopo aver pregato inginocchiati con gli occhi socchiusi sotto la guida del maestro spirituale sufi, mi hanno invitato al loro pranzo comune. Le donne avevano sopracciglia spesse e unite nel centro, come ho visto riproposto in diverse altre incontrate nel viaggio e indossavano il vestito della festa in tessuto atlas, decorato e cucito con filo d’oro. Il costume tradizionale delle donne è un abito, tipo tunica, di seta con pantaloni larghi, quello degli uomini è un abito imbottito. Il copricapo tradizionale maschile è il tubeteika.

Ricordo invece con dolore il racconto di un ex pescatore di Moynaq, un tempo uno dei centri costieri più attivi del lago d’Aral. Lui e gli altri abitanti avevano perso, con la scomparsa del lago, non solo la fonte della sussistenza economica, ma avevano compromesso la loro salute a causa dell’inquinamento dell’aria.

Sito nella regione che si estende tra Uzbekistan e Kazakistan il lago Aral, che era il quarto lago più grande del mondo, è oggi quasi del tutto prosciugato a causa di una serie di disastri ambientali causati, a partire dagli anni Quaranta, dall’ex Unione Sovietica che ha deviato i due fiumi principali che lo alimentavano, il Sir Darya e l’Amu Darya, per realizzare un sistema d’irrigazione che aumentasse la produzione di cotone. Negli occhi di quell’uomo ho visto tutto il rimpianto delle acque blu del lago Aral.

Del viaggio in Uzbekistan ho ancora gli occhi pieni della bellezza dei monumenti, del colore dei mosaici e delle immagini delle facce di quei vecchi arse dal sole o delle donne le cui risate si illuminano di dentature d’oro o di quelle rubiconde dei bambini, facce che nella mia testa si mischiano, sfumando una nell’altra, ma anche differenziandosi, per apprezzarne il contrasto. Senza diversità, non c’è bellezza.

Il viaggio in Uzbekistan è stata un’esperienza indimenticabile che mi fa pensare a quanto Alessandro Magno, secondo una leggenda, ha riferito per Samarcanda:

Tutto quello che ho udito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi.