Come Zenone, il protagonista del romanzo l’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, ho sempre pensato che nessuno dovrebbe essere così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione, perciò, appena l’età e i mezzi me lo hanno consentito, ho iniziato a viaggiare per conoscere la mia sontuosa cella che si estende fino ai confini del mondo.

Nell’estate del 1990, all’età di trent’anni, una fortunata serie di circostanze mi porta in Indonesia, nell’isola allora semiselvaggia di Sulawesi, la Celebes degli antichi navigatori, e per chi non ha seguito le precedenti tappe del racconto del viaggio, la mattina di quel 9 agosto stavo per partire con la mia guida Robby Tan, per gli impervi altopiani dove si trova Tana Toraja, la terra delle genti Toraja, un etnia arcaica rifugiatasi al centro del grande tentacolo meridionale di quella gigantesca piovra di foreste e montagne che caratterizza la forma di Sulawesi.

Dopo due giorni di viaggio tra vallate lussureggianti e montagne color smeraldo, tra innumerevoli soste per esplorare un ruscello o una radura nella foresta con continue raccomandazioni di prudenza da parte della mia guida che, ovviamente, si guardava bene dall’accompagnarmi nelle mie escursioni, giungiamo a Rantepao, principale centro della regione Toraja.

Già da molti chilometri avevo cominciato a notare, tra le baracche di lamiera ondulata o di foglie di palma intrecciate che costituiscono la gran parte dell’edilizia locale, alcuni bizzarri edifici di grandi dimensioni, con il tetto in tegole di terracotta se recenti o in scandole di tek se più vetusti, ma sempre con la stessa forma di grande barca con la prua e la poppa rialzate di uguali dimensioni, con i travi principali davanti all’entrata ornati da decine di trofei costituiti da corna di bufalo.

Ora invece la maggior parte degli edifici aveva questa foggia che caratterizza le tipiche case Toraja, le imponenti e maestose Tongkonan, entro le quali vivono i clan familiari il cui stato sociale è rappresentato dal numero di corna di bufalo appese all’entrata: più ve ne sono più alto è il rango della famiglia.

A Rantepao abbiamo un appuntamento con un amico di Robby che scoprirò in seguito essere come lui il figlio di un importante capoofficina della Toyota locale e che, come lui, ne sapeva meno di me delle tradizioni e della cultura del posto.

Con Sonny, così mi pare si chiamasse la nostra nuova “guida”, cominciamo un fantastico giro nei paesini e nei tipici villaggi Toraja, cioè dove sarei benissimo potuto arrivare anche da solo essendo questa, ahimè, un’area già toccata da quel turismo di massa che in quegli anni cominciava ad imperversare anche negli angoli più dimenticati del pianeta e che quindi era ricca di indicazioni e di info-point turistici per cui sarebbe stato difficile perdersi.

Fortunatamente i due amici avevano un sacco di cose da raccontarsi e quindi mi lasciavano gironzolare da solo in quei villaggi meravigliosi, circondati da alte montagne coperte di foreste, costruiti su palafitte sopraelevate su risaie concepite come sinuosi ricami intessuti da una dea esotica in una Arcadia tropicale.

Il verde smeraldo, colore dominante del paesaggio, era trapunto di macchie color rubino, turchese o dorate: i vistosi parasole delle mondine che lavoravano nelle risaie che si stendevano a perdita d’occhio come le montagne in cui erano incastonate.

Uno dei villaggi più belli si chiamava Kete Kesu ed era nascosto in una piccola conca carsica tra verdi colline ricoperte di jungla.

L’idilliaco surreale villaggio di quell’Arcadia tropicale era costituito da capanne e piccole costruzioni in bambù che circondavano come pulcini una sorta di piazza rettangolare di grandi dimensioni su cui si fronteggiavano gigantesche tongkonan, tra le più belle e antiche che avessi visto fino ad allora. Erano ornate di elaborate sculture antropomorfe, altre invece rappresentavano teste di bufalo: animale sacro, fulcro dell’economia e della cultura tradizionale di quelle genti.

Eravamo in agosto, mese che i Toraja dedicano alle “Ma’ nene” le loro celebri cerimonie funebri che conoscevo solo sommariamente, poiché in quegli anni non erano note come lo sono oggi, anche se attiravano già parecchi viaggiatori.

La piazza del paese era gremita di gente vestita di scuro proprio per una di queste cerimonie, ai lati qualche gruppetto di turisti smaniosi, mentre un rullo di tamburi permeava l’aria di una sinistra atmosfera carica di tensione. A un certo punto la folla si apre per lasciar passare un gruppetto di persone vestite degli sgargianti colori della festa che parlano con uno strano personaggio, particolarmente rigido, a cui sembrano dedicare tutte le attenzioni.

Io sapevo che presso quella etnia i morti non venivano inumati subito. Ma ogni famiglia tiene i propri cari defunti vicino a sé, anche per anni, fino a che tutti non siano riusciti ad elaborare il lutto e, soprattutto, fino a che il clan famigliare non sia riuscito a raccogliere i fondi necessari a preparare la vera e propria cerimonia funebre, tanto più sontuosa quanto più alto è lo status sociale a cui la famiglia appartiene. Ma avevo sempre pensato che la salma, nel frattempo, fosse temporaneamente sepolta, magari nell’orto dietro casa, ma comunque ben nascosta sottoterra, ebbene mi sbagliavo.

Badate bene, non sono un tipo tenero, sono un medico, avvezzo alla morte fin da quando facevo le prime dissezioni accademiche sui cadaveri, ma a questo non ero proprio preparato, perché sotto il cielo limpidissimo di quell’Arcadia tropicale, quando il manipolo di persone vestite a festa mi passa accanto, un impietoso raggio di sole illumina il volto del tipo rigido e mi accorgo che quell’incedere e quella postura erano così particolari perché quel tizio era morto stecchito. Ma non semplicemente morto, bensì mummificato! Sissignori quella che trasportavano era una mummia spaventosa, con una zazzera di ispidi capelli grigi sul cranio, vezzosi occhialini pince-nez e una sigaretta accesa in quella atroce smorfia che era stata la bocca!

Perché quella strana gente il morto se lo tiene proprio a casa, come se fosse ancora un membro della famiglia, ancora vivo e presente, solo un po’ indisposto. A tal fine viene conservato in formalina fino a completa mummificazione dei tessuti organici per poter poi essere esposto e presentato a parenti ed amici ad ogni importante occasione fino alla cerimonia del funerale definitivo, come quello a cui stavo assistendo. Pazzesco.

All’improvviso un nuovo orrore, sotto forma di un muggito spaventoso, mi porta, insieme alla folla, nello spiazzo principale del paese dove inizia la parte forse ancor più spaventosa di questo folle rituale: il sacrificio di una ventina di stupendi poveri bufali innocenti che vengono scannati in un mare di sangue tra le grida festanti della gente.

Ricordate i cornuti trofei che ornano l’entrata delle gigantesche case-navi? Ebbene ecco spiegata la loro macabra esposizione: siccome il defunto, come un antico faraone, deve partire per l’ultimo viaggio con tutti i suoi averi, animali compresi, i famigliari sacrificano i bufali e i maiali del morto affinché possa pascersene nella “ terra di Puya”, vale a dire in paradiso, giacché si crede che se la sepoltura non sarà stata sufficientemente sontuosa e degna del rango del trapassato questi non riuscirà a raggiungere l’aldilà ma resterà quaggiù a tormentare i vivi sotto forma di “Bombo”, un inquieto spirito malvagio e risentito.

Lascio la piazza perché lo spettacolo della mattanza dei bufali è veramente insostenibile e, inseguito da quei muggiti strazianti, imbocco un sentiero che costeggia la risaia ai piedi di una ripida parete calcarea dove alcune caverne, come orbite vuote, mi osservano sotto un sole che ora mi pare brillare di un sinistro fulgore.

Guardando bene mi accorgo che alcune di quelle vuote orbite in realtà non sono affatto vuote, perché aguzzando la vista, mi pare che, appena all’interno, un po’ all’ombra, vi siano gruppi di persone che, appoggiati ad una rozza ringhiera, sembrano fissare il vuoto. No! Altre mummie? Perché certo quelle non sono persone vive. Allora prendo il mio binocolo tascabile e mettendo a fuoco i sinistri personaggi che guardano dalle grotte scopro trattarsi dei famosi tau-tau di cui tanto avevo sentito parlare, cioè le statue lignee che riproducono a grandezza naturale le sembianze dei morti che riposano in bare intagliate accatastate più indietro, nel fondo della grotta.

Dopo un po’, sotto il benedetto clamore della jungla che per fortuna ha purificato le mie orecchie da quegli orrendi mugghi, arrivo all’imbocco di una scala scavata nella roccia che sale ad una grotticella una quindicina di metri più in alto, da dove una famigliola di tau-tau mi osserva sdegnata con i bianchi occhi sgranati mentre salgo a disturbare il suo riposo.

Lacerando con il bastone alcune mostruose ragnatele di nephila che mi sbarrano la strada, giungo all’entrata della nicchia alle spalle della famigliola che ora non si cura più di me.

Quando gli occhi si abituano all’oscurità che permea il fondo della piccola caverna, muovo qualche passo verso l’interno e vengo letteralmente investito da un nugolo di piccoli pipistrelli che, disturbati dal mio arrivo, fuggono squittendo verso l’apertura alle mie spalle. Sulla parete che chiude la nicchia, come immaginavo, stanno accatastate lunghe casse. A un attento esame risultano essere vecchie bare sontuosamente intagliate e, chissà perché, per una strana associazione di idee, mi viene in mente la cassa da morto che si fa preparare Quiqueg, quando il suo idoletto jojo gli predice la fine sotto i colpi mortali di Moby Dick.

Nella semioscurità inciampo contro qualcosa che rotola più in là fermandosi in un fazzoletto di luce sul pavimento e cos’altro poteva essere in quel luogo sinistro, se non un teschio bello pulito e dallo sguardo estremamente eloquente nella sua muta immobilità? Infatti alcune di quelle bare, marcite per l’umidità e corrose dai tarli, avevano fatto sgusciare fuori qualcosa del loro legittimo inquilino perché assaporasse un ultimo raggio di sole.

È ora di tornare. Quei due svitati avranno finito di chiacchierare e mi staranno aspettando all’entrata di Kete Kesu, ed io sono un po’ stanco.

Forse ho sentito troppa morte attorno a me, troppa tenebra, acquattata nelle ombre della foresta sotto il sole sfolgorante o dietro gli sguardi stupiti dei tau tau, che sembrano carichi di riprovazione per me che, loro malgrado, oso essere ancora così sfrontatamente vivo.