Il mondo è un immenso libro nel quale, nei millenni passati, uomini hanno scritto la loro storia con graffiti, pitture rupestri e hanno lasciato lastre di pietra, alcune fittamente decorate, altre che riproducono figure schematiche maschili e femminili.

Il mio interesse per queste “pagine di pietra” ha spesso influenzato la scelta delle mete dei miei viaggi: in Lunigiana per le statue stele, nel Salento per i menhir, a Stonehenge in Gran Bretagna per il maestoso cromlech, circolo di pietre composto da megaliti, e in Armenia per Zorats Karer, l’ osservatorio astronomico.

Quell’anno avevo deciso di estendere il viaggio dall’Ecuador alla Colombia per visitare il Parco Archeologico di San Agustín. Peter, un viaggiatore tedesco, una sera intorno al fuoco nel Sahara, mi aveva parlato di questo luogo pieno di mistero ed ero molto curiosa di scoprirlo.

Arrivata a Bogotà, capitale vivace circondata dalle vette andine, mi sono diretta alla Candelaria, centro storico della città dagli antichi quartieri. Mi sono fermata ad osservare la piazza Bolívar, dove il 20 luglio 1810 riecheggiò “l'urlo per l'indipendenza”. Così mi ha raccontato un ragazzino dagli occhi furbi che, per ottenere qualche sucres, moneta allora in vigore, mi ha fatto da guida.

Però, sentitami circondata e un po’ troppo osservata, ho deciso che la visita al Museo dell’Oro sarebbe stata più prudente e mi sono persa nelle sue cinque sale. Non sapevo dove posare gli occhi dai tanti oggetti esposti. L’osservare i manufatti d'oro precolombiani, le ceramiche e i gioielli – di una delle più grandi collezioni del mondo - realizzati dalle diverse popolazioni indigene, è stato un viaggio indietro nel tempo.

L’oggetto che mi ha più colpito è stato la Balsa Muisca. Una zattera d’oro, un pezzo votivo attribuito alla cultura Muisca, che è associata alla leggenda di El Dorado e all'incontro tra conquistatori e indigeni.

Sono andata poi, un po’ da incosciente, a confondermi con la gente, i colori e i profumi del mercato di Paloquemao straripante di fiori, carni di tutti i tipi, verdure, frutti di mare provenienti da tutto il Paese.

Il giorno seguente, dopo un risveglio lento, ho preso un volo per Neiva e da lì, dopo una breve sosta per gustare l’ajiaco, zuppa a base di pollo, di tre diverse varietà di patate e di pannocchie di mais, sono partita in pullman per San Agustín.

Il tragitto è stato inquietante per i tanti posti di blocco della polizia che si parava davanti con il mitra spianato. I passeggeri locali mi sono sembrati tranquilli, evidentemente avvezzi a tali incursioni.

I bambini, in tante ore di viaggio, non si sono proprio sentiti. Le donne avevano grossi sacchi contenenti i loro lavori: maglioni, guanti, cappelli, sciarpe che a ogni sosta, anche breve, cercavano di vendere dando vita a un improvvisato mercato variopinto.

Ho raggiunto il dipartimento di Hula, dove si trova San Agustín, attraversando paesaggi accattivanti e vari: dalla pianura della Valle Magdalena con coltivazioni di riso e cotone, alla montagna del Massiccio Colombiano con piantagioni di caffè. Nell’aria aleggiava un odore di muschio misto a caffè.

Salutati i miei compagni di viaggio, comprato un bel cappellino di lana, ho affrontato San Agustín.

La cittadina mi ha dato subito l’impressione di un paese tranquillo e accogliente con graziosi alberghetti, ristorantini che sapevano di cibo locale, mercati colorati e con gente affabile, sempre pronta a offrimi aiuto e qualche loro golosità che in alcuni angoli delle strade veniva preparata e venduta.

Con una guida particolare, uno studente di 15 anni fornito di un piccolo machete, sono andata a scoprire il Parco Archeologico di San Agustín, iscritto dall’UNESCO come Patrimonio Culturale Mondiale nel 1995.

Ho preceduto la visita da un passaggio al museo contenente gioielli, ceramiche, statue, sarcofagi, frecce. Manufatti eseguiti dalla misteriosa civiltà Agustiniana che studi su resti organici datati dal carbonio 14 fanno risalire addirittura al 3300 a.C. e che ha raggiunto il massimo splendore tra il 200 e l’800 d.C. Le statue monolitiche si trovano in un’area di 500 chilometri quadrati incastonata tra le verdi e rigogliose montagne che circondano San Agustín.

Il sito, che fu abbandonato nel 1350 d.C. e che solo tra il 18° ed il 19° secolo tornò alla luce, è formato da tre settori distinti: Mesitas, Alto de Los Ídolos e Alto de Las Piedras che ospitano il più grande complesso di monumenti funebri e statuari di epoca precolombiana.

È indescrivibile la serenità che ho provato nel camminare, sotto un cielo plumbeo, nel Parco il cui silenzio veniva interrotto unicamente dal rumore delle foglie secche calpestate e dal canto degli uccelli.

La percezione del tempo era svanita. Da quel luogo scaturiva un’energia speciale e la sua natura austera mi è parsa perfettamente in armonia con gli arcigni megaliti raffiguranti figure antropomorfe e zoomorfe.

Ero incuriosita dal mistero, ancora irrisolto, riguardante la civiltà degli Agustiniani che si ritiene siano arrivati nel sito megalitico già esistente e l’abbiano scelto per edificare, lungo i secoli accanto agli antichi dolmen, le loro costruzioni: le 500 e più statue monolitiche, i sarcofagi e i petroglifi.

La mia giovane guida mi ha raccontato che gli archeologi non sono ancora riusciti a spiegare l’origine dei dolmen. In Europa questo tipo di tomba megalitica preistorica a camera si è diffusa tra il V e il III millennio a.C.

Anche per quanto riguarda lo scopo delle fantastiche statue di pietra, né l'archeologia né le tradizioni popolari locali forniscono indicazioni precise circa la loro origine.

Un vecchio incontrato sul luogo, che poi ho scoperto essere un antropologo, mi ha riferito che per interpretare ciò che effettivamente questa cultura ha voluto esprimere con le proprie opere sarebbe stato necessario fare una comparazione con altre culture preispaniche e studi più approfonditi.

Con queste limitate informazioni ho osservato più attentamente le statue. Ho accarezzato e fotografato quelle opere ricavate da grandi massi di origine vulcanica a cui scultori locali hanno dato forma. Di altezze variabili, raffigurano una meravigliosa varietà di figure dal disegno accurato, alcune dal carattere funerario, altre che rappresentano animali come giaguari, serpenti, rane e grandi uccelli, altre sembianze umane stilizzate, divinità, personaggi importanti, mostri sorridenti, accigliati e beffardi.

Al di là dell’aspetto visivo, mi è sembrato che nascondessero qualcosa di sé e mi sono immaginata che dalle loro bocche grandi e strette uscissero parole bisbigliate per rassicurarmi e trasmettermi come l’arte, in qualsiasi sua forma, deve far sognare e mettere in contatto con qualcosa di diverso, così da stimolare la curiosità che è antica come il mistero.