Arrivata a Yerevan miracolosamente sono stata portata da un taxi sgangherato nella casa che mi avrebbe ospitato nella capitale. Ad aprirmi la porta è stata una signora rubiconda dal sorriso accattivante. Mi ha invitato a passare in una stanza piena di oggetti luccicanti e di cristalli e mi ha offerto sale e pane.

Non ero preparata a questa loro usanza antica che vuole che l’ospite si riceva, appunto, con il sale e il pane.

Ho appreso nei giorni successivi che il lavash, il pane tradizionale armeno, incluso nella lista del patrimonio dell’umanità UNESCO, viene fatto una sola volta a fine autunno con un complesso rituale, non privo di motivi simbolici e religiosi, a cui attendono da tre a cinque donne scelte per le doti morali e la loro buona salute. Ho apprezzato ancora di più il gesto della mia ospite.

Crocevia di scambi commerciali sulla Via della Seta, l’Armenia è stata terra di invasione di potenti imperi. Romani, arabi, bizantini, iraniani, mongoli e turchi hanno attraversato i suoi territori e hanno influenzato il suo destino e la sua cultura che è stata punto di incontro tra Occidente e Oriente.

Le scoperte e le emozioni sono state tante, non solo per gli antichi monasteri edificati a un passo dal cielo, i misteriosi siti archeologici e i villaggi sperduti tra montagne maestose; mi hanno colpito la musica, la poesia, le arti e l’ospitalità di cui questo Paese speciale è impregnato.

La cristianità l’ha plasmato e le testimonianze sono disseminate ovunque. Non ho potuto visitare i luoghi di culto senza prima addentrarmi nella storia della Chiesa apostolica armena, una delle prime comunità cristiane nel mondo. L'Armenia fu, infatti, il primo Paese al mondo a garantire la libertà di culto ai cristiani e a rendere il cristianesimo religione di Stato.

Con il rifiuto da parte della Chiesa armena del Concilio di Calcedonia del 451 d.C. ha avuto inizio un isolamento del popolo armeno.

Nel 1742 dalla Chiesa nazionale armena è nata la Chiesa armena cattolica, presente con comunità in Libano e in altre realtà della diaspora armena e in minima parte nella stessa Armenia.

A Echmiadzin, che è la città più sacra dell'Armenia, nella cattedrale che San Gregorio Illuminatore volle edificare nel 300 d.C. dove in origine sorgeva un tempio, ho incontrato, dopo una solenne e lunga (dura non meno di due ore) funzione il Catholicos, il capo della Chiesa. Ho assistito alla somministrazione dei sacramenti della Cresima e della Comunione che sono stati impartiti assieme a quello del Battesimo. Un prete mi ha riferito che questa usanza è la conseguenza del lungo periodo in cui gli armeni sono stati sottoposti a continui massacri, così che i neonati, nel caso fossero stati uccisi, avrebbero già ricevuto i tre sacramenti.

Khor Virap è il monastero che mi è rimasto più impresso. Dalla struttura massiccia e dalle singolari cupole a cono, rappresenta la tipica architettura armena delle chiese e dei monasteri. È al confine turco e gli fa da sfondo l’imponente Monte Ararat su cui la leggenda vuole si sia fermata l'Arca di Noè dopo il diluvio. Il monte, simbolo del popolo armeno, si trova in territorio turco. Una beffarda linea di confine lo rende irraggiungibile agli armeni a causa delle irrisolte tensioni storico-politiche tra Turchia e Armenia.

Nel monastero il cui nome significa “prigione in profondità” c’è il pozzo in fondo al quale San Gregorio Illuminatore, il fondatore della Chiesa Apostolica Armena, venne imprigionato per tredici anni.

L’incontro con la musica armena l’ho avuto in un luogo speciale, il Zorats Karer, sito archeologico preistorico, la “Stonehenge armena”.

Camminavo osservando i suoi misteriosi megaliti quando nell’aria si è sparsa una musica che mi ha ricordato le colonne sonore dei film più famosi. Sono stata attorniata dal suono del duduk, strumento a fiato di antica tradizione armena.

Il suo suono racconta del pianto di antiche genti e della gioia di bambini, di scontri nelle battaglie e di danze nuziali. Il suono profondo di questo strumento accompagna quasi tutte le celebrazioni armene, siano gioiose o tristi. È comune ritenere che il duduk rifletta tutte le intonazioni dei dialetti tradizionali armeni. Ciò richiede tecniche speciali che i maestri armeni hanno sviluppato per garantire che il suo suono sia molto simile alla voce umana.

Così riferisce, in un suo articolo, la giornalista Kristine Gasparyan. Sono rimasta incantata dalla bellezza del Lago Sevan e dagli spettacolari panorami del Caucaso meridionale al di là dello specchio d'acqua.

Sulle rive del lago, a Noraduz, mi sono imbattuta in un’arte religiosa particolare: i khachkar. Sono cippi con una o più croci impresse sopra. Decorate con arabeschi, fregi e diversi motivi di stile fortemente orientale, vengono utilizzate come croci cristiane, dentro o fuori dai luoghi di culto.

Fra le tante cose interessanti che ho visto mi ha colpito il villaggio troglodita di Khndzoresk.

Lo storico villaggio rupestre mi ha suggerito scenari e atmosfere fiabesche. Situato sul ripido pendio di una gola, è composto da grotte naturali e artificiali scavate l'una sopra l'altra. Era necessario un complesso sistema di funi e scale per consentire alle persone di raggiungere molti angoli della comunità. Il villaggio aveva anche due chiese e tre scuole. Le abitazioni rupestri furono abitate fino agli anni '50. Oggi è frequentato principalmente dal bestiame che pascola tra le grotte convertite in stalle o magazzini.

Non potevo partire dall’Armenia senza essere andata sulle colline di Yerevan a visitare il Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno che il Governo dei Giovani Turchi ha iniziato nel 1915 ai danni della minoranza armena nel territorio sotto il dominio ottomano.

Alla luce rosata del tramonto mi sono emozionata nella grande spianata dominata dalla splendida, ma allo stesso tempo “crudele”, vista sul monte Ararat. Un muro porta il nome dei villaggi armeni dell'Impero Ottomano dove furono perpetrati i massacri. Nel centro una freccia di granito, alta 44 metri, simboleggia la rinascita dell'Armenia. Dodici steli circolari ospitano la fiamma perenne. Nei giardini ci sono alberi e piante dedicate alle vittime del genocidio da diversi personaggi importanti di tutto il mondo. Nel sottosuolo c’è un piccolo museo del genocidio.

Difficile raccontare l’intensità di quello che ho vissuto in quella spianata; sono stata accompagnata da una studentessa armena e i suoi occhi lucidi mi hanno testimoniato che il massacro di 1,5 milioni di armeni, che loro chiamano Medz Yeghern, il Grande Male, è ancora una ferita aperta e mi sono resa conto di quanto poco si conosca di questo popolo, di antichissima tradizione, che vive per la maggior parte nella diaspora (in Armenia abitano circa tre milioni di armeni contro gli undici milioni sparsi per il mondo).