Se si volesse conoscere lo stile americano della prima metà del Novecento attraverso le opere di Edward Hopper, avremmo un quadro non realistico, perchè è il Paese delle folle, degli agglomerati cittadini, delle code infinite. New York è considerata ed è, la più importante metropoli, da cui tutti sono attratti. Ci viveva anche Hopper e ci ha vissuto buona parte della sua vita.

Di questa città, quello che rivela l'artista è la solitudine e la mancanza di comunicazione, non solo con la folla, ma anche con le persone più care che vivono accanto, con le strade, i bar, i ristoranti, i caffè vuoti. I rapporti sociali sono, nelle sue opere, freddi, impersonali, gli appuntamenti disattesi, i bar luoghi di solitudine per eccellenza, gli alberghi, i motel, squallidi, isolati e tetri, le vie vuote, i negozi chiusi.

Le pompe di benzina sono solitarie, in campagna, poste su stradine secondarie, dove nessuno passa, i luoghi di lavoro, i barbers shop o quant'altro, coi gestori che aspettano clienti che non arrivano, i teatri ed i cinema quasi deserti, gli uffici popolati da severi datori di lavoro, pronti al rimbrotto, le mogli annoiate accanto a mariti poco premurosi.

E' un mondo in cui manca la gioia ed il sorriso, il vociare e la confusione che contraddistingue i luoghi popolati. Il mondo che Hopper dipinge è il suo interiore, fatto di ordine, precisione, solitudine, rigore, così com'è lui stesso: un uomo tutto d'un pezzo, che come pittore non ha cambiato soggetto e modo di dipingere tutta la vita, a parte alcune piccole progressioni, dedito ad una vita di lavoro, consacrato all'arte con scrupolosa fedeltà.

Ha avuto come compagna Jo, con cui è vissuto tutta la vita, con la quale condivideva lo stesso lavoro di artista. Una donna fascinosa, poliedrica, ma gelosa e possessiva. Con la quale aveva scontri caratteriali, ma con cui condivideva la passione per il teatro, per il cinema e per il mare. Da spettatori, a teatro, i due artisti si inebriavano delle storie altrui, da cui volevano stare ben lontani e il mare era un luogo da contemplare dall'interno della loro meravigliosa casa, costruita ad immagine e somiglianza dei proprietari: bianca, linda, funzionale, sobria, essenziale.

Jo si era spinta ben oltre la funzionalità, impedendo ad Edward il contatto e qualsiasi approccio con le modelle, trasformandosi lei stessa in modella per ogni occasione e interpretando il ruolo magistralmente. Hopper doveva mettere di suo la fantasia di dipingerla prosperosa quando era sottile, giovane quando era anziana, di colore quando era bianca, bruna quando era bionda.

Quella che descrive, in ogni opera, è un'atmosfera metafisica che allontana i suoi personaggi dalle cose da cui si attorniano: vuole concretizzare l'attimo in cui le azioni della vita si soffermano nell'immobilità del tempo senza presente, né passato, quello in cui ci si arresta per guardarsi dentro e intorno, per fare il punto della situazione, per lasciare veleggiare la mente nel nulla. Un momento di eternità che accomuna tutti gli esseri viventi, quello in cui la mente trascende la realtà e si arresta in lidi impercorribili, perchè non si sa dove andranno a parare, qual è il significato e il resto della storia, Hopper verrà definito “il De Chirico americano” per aver condiviso, con questo artista, la comprensione che non sono necessari soggetti nobili o temi alti e solenni, per alludere alla spiritualità. Qualsiasi situazione, la più banale, può essere di pretesto per raggiungere la parte di noi più profonda.

Nel suo caso interni di appartamenti, di bar, di hotel, di uffici, fabbriche, palazzi, case coloniche, di legno bianco, mansarde decorate con arditi comignoli, negozi illuminati o chiusi, come strade, binari, pompe di benzina improbabili, treni, pullman e auto. A lui basta poco per arrivare a tanto: una balaustra scorciata, un'angolatura obliqua, l' angolo appartato di un teatro, una strada deserta, per portarci in una visione assoluta che toglie la sicurezza della certezza: le sue figure non significano la realtà che rappresentano, rivelano una condizione di spaesamento e di attesa che porta dove non si sa, dove corre il pensiero, che si perde nelle ombre dei boschi impenetrabili, che l'artista ha rappresentato così magistralmente.

Per noi che ammiriamo i suoi capolavori, viene spontaneo immaginare che voglia descrivere l'incomunicabilità dei rapporti umani, le facili incomprensioni, la solitudine delle nostre vite: ma Hopper ha sempre negato che questo fosse il suo obiettivo: quello di sottolineare la solitudine umana, dicendo “ Si parla troppo di solitudine parlando delle mie opere”, perchè voleva invece rappresentare il significato più profondo della nostra esistenza, l'essenza stessa delle vita.

Vuole creare momenti universali, unici e non a caso non attribuisce mai connotati individuabili ai personaggi che dipinge, lasciandoli nel limbo dell'incertezza e dell'anonimità: sono tipi, raffigurazioni di molte altre realtà che alla fine sono poi tutti simili, esseri umani con lo stesso destino. Alla base delle sue elucubrazioni c'è sicuramente la filosofia del grande Emerson, la figura più influente del movimento trascendentale americano del XIX secolo e ispiratore del Pragmatismo, fautore dell'individualismo e critico nei confronti del conformismo, che viene esercitato dalla società nei confronti delle persone. Per Emerson, la libertà degli uomini non è sfuggire o ribellarsi al senso del mondo, ma comprenderlo ed accettarlo.

Forse è proprio questo che vuole dirci Hopper con lo straniamento dei suoi personaggi: la vita è quella che è, ci presenta imprevisti di ogni tipo che ci sconvolgono, a noi spetta capirne il significato, farcene una ragione e accettarlo con sereno rigore di una personalità che si è resa conto di ciò. Edward Hopper era nato a Nyak, nello Stato di New York, era figlio di un negoziante in tessuti e fin dall'infanzia è stato un solitario che amava leggere, complessato dalla sua alta statura: a 12 anni superava già il metro e ottanta.

A 5 anni dimostrava già il suo talento nel disegno, per cui a 17 anni si iscrisse ad una scuola di grafica per corrispondenza e l'anno successivo alla New York Scool of Art, dove studiò illustrazione e pittura. Fu molto legato al suo insegnante Robert Henri, che lo indirizzò a scegliere come tematica la vita quotidiana della metropoli, consigliandogli anche di approfondire i grandi Realisti del passato come Velasquez, Goya, Daumier, Manet e soprattutto Degas.

Edward per vivere, cominciò a lavorare come illustratore pubblicitario, attività che non lo soddisfaceva, per cui, aiutato dai genitori, nel 1906 si recò a Parigi, che a quei tempi era ancora la capitale dell'arte e vi rimase alcuni mesi, ospite di religiosi Battisti americani. Non fu mai attratto, come gli altri artisti che si recavano a Parigi, dall'Avanguardia artistica, che tanto furoreggiava a quei tempi, fu piuttosto affascinato dalle opere degli Impressionisti che ammirava alle esposizioni e nei musei. Da essi trasse il suo particolare interesse per la luce, anche se non dipinse mai il sole.

Ritornò a Parigi altre due volte, nel 1909 e nel 1910, poi non lasciò più gli Stati Uniti. Cominciò ad esporre le sue opere, che in parte aveva dipinto a Parigi, terminandole poi in studio a New York. Le aveva proposte alla National Academy of Design, ma non erano state accettate, si dovette accontentare di esposizioni meno importanti che il suo maestro Robert Henri proponeva ai suoi ex allievi presso il Club MacDowell. In ogni caso non fu notato dai critici, non ebbe successo, per cui dovette continuare a lavorare nel campo pubblicitario e solo a 42 anni potè dedicarsi completamente alla pittura, dopo anni di strenua lotta per affermarsi. Ma pian piano si fece conoscere, riuscì a vendere opere ad acquerello, a vincere i primi premi, fino a diventare il più grande artista realista americano del secolo scorso.

Dal 1913 aveva affittato uno studio in Washington Square, che tenne tutta la vita, facendone la sua dimora. Erano locali luminosi, ma spartani, essenziali, secondo la severa educazione ricevuta dai genitori, e anche quando le sue condizioni economiche erano diventate floride, avendo raggiunto il successo, continuò a pranzare nelle trattorie più modeste, vestendosi con abiti che finiva di rendere lisi, acquistando sempre auto di seconda mano, non appariscenti.

La sua prima mostra personale importante la tenne nel 1920, con una parte dei dipinti realizzati a Parigi, quella che non ottenne alcun riscontro positivo. Questa esposizione era stata realizzata in quello che sarebbe diventato il prestigioso Whitney Museum of American Art, che nel 1931 gli acquistò l'opera ” Una domenica mattina”, divenuta in seguito parte della collezione permanente del museo. Hopper era molto legato a questo museo e vi espose tutte le nuove opere dal 1932 in poi.

Il primo vero successo dell'artista risale al 1923. Sono paesaggi ad acquerello che aveva dipinto nel Massachusetts a Gloucester e che ottennero finalmente un riconoscimento da parte della critica. Nel 1924 sposò la pittrice Josephine Nivison detta Jo, sua compagna di studi alla scuola di Robert Henri. Jo era socievole, estroversa ed aperta, il contrario dello scontroso e taciturno Edward. Era una donna minuta, dalla forte personalità, amante dei gatti, ma negata per i lavori domestici. Come pittrice condivise l'atelier con quello del marito, lavorarono sempre accanto.

Hopper intanto aveva raggiunto la maturità e le sue opere ottenevano maggiore interesse alle mostre, in cui esponeva al Whitney Museum come al Museum of Modern Art e in seguito anche all'Art Institute di Chicago. Esponeva anche a Detroit e a St. Louis. Nel 1932 fu eletto membro associato della National Academy of Design, che l'artista rifiutò perchè ne era stato respinto negli anni del faticoso esordio. In seguito fu insignito di premi e medaglie in tutto il Paese, fino ad ottenere il titolo onorifico di dottore in Belle Arti dal prestigioso Art Institut of Chicago.

Rappresentò gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 1952 e nel 1954 fu insignito della medaglia d'oro per la pittura dall'American Academy of Art. Nel 1934 si fece costruire insieme a Jo una casa studio a Truro, presso Cape Code, dove trascorse tutte le sue estati, a contatto col mare che tanto amava e di cui ci ha lasciato tante meravigliose opere. Attraversò in auto tutto il Paese, in compagnia sempre della moglie e in seguito viaggiò molto anche in Messico.

I suoi interessi culturali erano vasti, oltre alla filosofia, amava il cinema ed il teatro e si interessò sempre di poesia Simbolista, ne conosceva molte liriche che recitava in un ottimo francese. Nelle interviste, che rilasciava a malincuore, non riconosceva alcun debito intellettuale o autobiografico alla sua arte, dichiarando che il suo intento era di proseguire unicamente la tradizione del Realismo Americano. Combattè con accanimento le opere astratte informali, tanto in voga in quegli anni, a cui non attribuiva alcun valore, arrivando a contestarle anche con atti di aperta protesta.

Era molto lento nel suo accurato lavoro, che attuava in silenzio e solitudine, ritenendo la conversazione una perdita di tempo: trascorse quindi la sua vita in modo appartato e meditativo, con la sola compagnia della moglie, con la quale tuttavia non era sempre in armonia, anche a causa delle diversità caratteriali. Aveva un atteggiamento pessimistico nei confronti delle persone e della vita, rimase sempre fedele al suo credo religioso Battista e molto osservante.

L'ultima opera di Hopper, dipinta nel 1966, un anno prima di morire, è un po' la sintesi della sua storia ed il commiato dai suoi estimatori, che tanto l'avevano seguito e acclamato. Nell'opera, su di un palco, in un teatro, emergono due figure emaciate, vestite da Pierrot, che si inchinano davanti a un pubblico immaginario, in un atteggiamento di doloroso commiato. Non è difficile scorgervi i lineamenti suoi e di Jo, questa volta rivelatori di personaggi.

Edward e Jo dicono addio al loro pubblico, tenendosi per mano, consapevoli che la vita è quella che hanno vissuto e che Edward ha rappresentato nei suoi dipinti, accettandone con rassegnazione il limite terreno. In effetti, é ciò che l'artista ha voluto farci riflettere in ogni sua opera: questa opera finale è piena di malinconica sincerità e verità, ma anche colma di tristezza. Niente di trascendentale, un vita semplice, una grande passione, una forte unione: Jo pochi mesi dopo la sua morte se n'è andata anche lei.

E' stato un grande Realista, le sue opere sono talmente vicine alla realtà che noi viviamo, anche se descrive prettamente la società americana, che ci comunicano immediatamente un senso di condivisione universale e insieme uno spaesamento, che pochi artisti sono riusciti a concretizzare in modo tanto efficace, con elementi così banali. Persino quando dipinge soltanto edifici, riesce a comunicare quel senso di attenta attesa, di partecipazione, come se fossimo anche noi lì: perchè tutti noi abbiamo vissuto momenti di spaesamento in un luogo nuovo, di attesa in situazioni particolari, di apprensione nel pericolo e di ansia nelle difficoltà imminenti.

In “Automat” la ragazza che, tutta sola, in un bar deserto, contempla il suo caffè è uno spaccato della nostra vita, la contemplazione di ciò che è stato e che verrà. Come abbiamo sbirciato curiosi nelle finestre illuminate di notte, dove altre vite consumano la loro storia, così come abbiamo vissuto la desolazione di una camera d'albergo, dove si deve restare, ma dove ci sentiamo a disagio e fuori luogo, come abbiamo viaggiato in scompartimenti vuoti, ignorando le bellezze della natura che si andavano dispiegando dal finestrino, chiusi nei nostri pensieri... Ma sono i “Nottambuli” quelli che più ci inquietano. La solitudine nella notte, in un luogo dove dovrebbe esserci vita e movimento, distrazione e invece c'è solo un cameriere a raccogliere le confidenze più segrete. E l'angoscia di un galleria scura, dove entra un treno o una metropolitana, che ci dà quella sensazione di insicurezza, che per un attimo ci ricorda le antiche paure dell'infanzia.

E le lunghe attese alla finestra o sulla porta, le infinite attese delle nostre storie... Attese che a volte sono coronate dalla gioia dell'arrivo, ma a volte segnano una tragedia. E poi il sole, quel sole che non compare mai, ma che illumina di una luce violenta e artificiale, innaturale, ma sa giocare sulle pareti, sui volti, sulle carni che rende rosate, mutandone il colore. E l'azzurro incredibile del mare, che si confonde col cielo, dandoci un attimo di sollievo rispetto alla sottile ansia che la produzione artistica di Hopper genera in noi.

Quello che non ha saputo dire a parole, l'artista, nella sua solitudine, l'ha descritto con le immagini che ha dipinto: non a caso grandi registi come Hitchcock, nella “Finestra sul cortile” e in “Psyco”, si sono ispirati a lui nei loro capolavori e anche Dario Argento si è ispirato ai “Nottambuli” per la realizzazione del “Blue Bar” che appare nella pellicola. Un grande artista non ha bisogno di grandi soggetti li porta alle stelle lui!