Calore. È questa la sensazione che si ha quando si cammina per il quartiere Tamburi di Taranto. Nelle strade, nelle piazze, tra le case. Tutt’intorno un solo colore: il rosso. La Puglia è una regione italiana bellissima, la città di Taranto risplende ma, lontano dal mare, all’ombra dell’industria, il luccichio è quello delle polveri ferrose che si sono depositate dappertutto. Un’invasione così potente che i cittadini hanno cominciato a dipingere le case con colori caldi per mascherare in parte l’effetto delle polveri.

La “fonte” è il vicino stabilimento siderurgico dell’Ilva, ormai Acciaierie d’Italia, primo centro per la produzione dell’acciaio in Italia e il più grande d’Europa. A due passi da migliaia di cittadini c’è uno dei pezzi più pregiati della produzione siderurgica italiana ed europea. Tanto importante quanto letale, verrebbe da dire. Da circa venti anni i cittadini di Taranto lottano contro una delle fonti inquinanti più serie d’Europa.

Era il 2008 quando la cittadinanza cominciò a prendere visione seriamente del pericolo. Un’associazione di ambientalisti, la PeaceLink, fece ispezionare un pezzo di formaggio pecorino delle campagne attorno a Taranto. Il risultato fu pauroso: c’era diossina. Il livello era oltre i limiti di legge, la scoperta smosse le acque e la Procura aprì un’indagine. La Magistratura fece un lavoro immane e, inoltre, moltissimi capi di allevamento vennero abbattuti perché nei pressi del siderurgico gli animali stavano brucando erba avvelenata. In quegli anni l’Ilva produceva l’8% della diossina europea.

Per molti cittadini fu un incubo, all’improvviso scoppiò la paura di essere finiti in una cappa avvelenata perché ormai la diossina era entrata nel corpo umano e nella catena alimentare contaminando anche le famose cozze tarantine. A luglio del 2012 il giudice Todisco decise per il sequestro degli impianti dell’area a caldo ed emise ordinanze per gli arresti domiciliari per proprietari e dirigenti dello stabilimento. Nonostante tutto, durante gli anni l’impianto non smetterà mai di lavorare, nonostante indagini e sequestri. In alcuni casi è lo stesso Governo italiano a muoversi con cautela, vista l’importanza strategica dell’impianto, adottando diversi decreti che i cittadini chiameranno poi “Decreti SalvaIlva”.

La scienza però chiedeva precisione ed esigeva di parlare di una condizione di causa effetto per decretare che l’inquinamento dell’Ilva fosse realmente causa di morti e malattie. La risposta arrivò per via giuridica quando i magistrati chiesero agli esperti una perizia e la risposta fu inequivocabile: “l’esposizione continuata agli inquinanti emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di diversi apparati dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.

Una risposta attesa e malinconica che porterà poi, nel contesto del processo “Ambiente Svenduto”, alla condanna di 44 persone fisiche e 3 società a svariati anni di carcere per diversi capi d’imputazione, tra cui concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

Il “disastro ambientale” dell’Ilva di Taranto ha subito diverse tappe e ha prodotto all’opinione pubblica italiana tante storie. La più toccante è sicuramente quella della squadra di calcio del quartiere Tamburi, il rione più vicino all’impianto. Per anni i calciatori amatoriali e i ragazzi del posto avevano giocato in quel campetto e tornavano a casa colmi di polvere rossa sui vestiti ma non avevano alcun timore. Col passar del tempo qualcosa si smosse, l’allenatore della squadra decise di fermare tutto, il Comune inviò i camion a depurare il campo, ne arrivarono tantissimi e andarono via carichi delle polveri depositate. Col tempo i calciatori morirono tutti di tumore e la storia finì in un libro: Ilva football club di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò.

Ogni abitante di Taranto ha dovuto fare i conti con l’aumento delle malattie, in maniera diretta e indiretta. Una lotta che però non li ha visti solo subire. Nel 2012 gli abitanti del quartiere, raccoltisi attorno al Minibar, cominciarono una raccolta fondi con le magliette per Taranto. Un’iniziativa che vide coinvolta anche la nota giornalista Nadia Toffa che contribuì a diffondere la storia. Furono raccolti 700mila euro. Oggi esiste a Taranto un reparto di oncologia pediatrica ed è intitolato proprio a Nadia Toffa, morta purtroppo a causa di un tumore.

Oggi anche il Governo Italiano è entrato nella proprietà dell’ex Ilva attraverso Invitalia e gli impianti a caldo restano aperti ma lo stabilimento deve necessariamente adeguare i propri processi attraverso l’AIA (Assistenza Integrata Ambientale). Un percorso che è costantemente controllato anche dai cittadini e dalle associazioni, come PeaceLink e Genitori Tarantini. È proprio grazie a quest’ultima associazione che sono state poste le basi per una mega class action per risarcire tutti i cittadini tarantini. Anni di battaglie legali che hanno portato anche gli organi internazionali europei ad interessarsi condannando l’Italia tramite la CEDU, la Corte Europea dei Diritti Umani.

Una guerra ancora non conclusa, anni di battaglie perse e vinte. Un fronte con tanti guerrieri: Ignazio D’Andria del Minibar, Alessandro Marescotti di Peacelink, Cinzia Zaninelli e Massimo Castellana di Genitori Tarantini e tanti altri. Una pagina “inquinata” della storia italiana che reclama ancora verità e giustizia.