Ha pochi denti in bocca, dalla radice scura e scoperta. È vestita in maniera trasandata e dai sandali escono unghie sporche di piedi sudati. I capelli sono unti e non saprei dire che età abbia, né provenienza. Salita sul pullman, mi sono seduta sui sedili a ribalta, gli unici liberi, quelli che quando ti alzi, sbattono e tutti si girano preoccupati. La donna al mio fianco è in piedi e la sua borsa mi stringe contro la parete. Resto schiacciata, con lo zaino sulle gambe, passiva.

Dalla mia seduta, alle nove del mattino, sono già stanca quando la donna inizia a parlarmi. La signora con la borsa è appena scesa e lei ha preso il suo posto vicino alle porte. Siamo io e lei. Non posso evitarla.

Con un accento straniero mi racconta di un episodio di cronaca nera. Usa le mani per farmi capire che la protagonista è una bambina. Fa un gesto a mezz’aria, oscillando la mano in orizzontale, come ad indicare una persona di scarsa altezza. Mi ripete che il mondo è un brutto posto, perché succedono brutte cose e che queste in particolare non può capirle. Sembra un comunicato ufficiale. Insiste, non sortendo in me alcuna reazione. Devo avere un’espressione da imbecille perché mi guarda perplessa, come a una poverina che non capisce.

Mi chiede che ore sono, presumendo che siano le dieci. Sono le nove, accenno infine a dire, emergendo dalla condizione ebete nella quale mi trovo. Immobile sul piccolo sedile di finto velluto, inadeguato in ogni stagione. Mi chiedo come possa sbagliarsi di un’ora. Si rende conto di essere in anticipo e riferisce qualcosa sul fatto che non possa ancora andare da una tale signora.

Tutto di lei sembra sciatto, compreso il carrello che trascina malandato. Arriva la sua fermata. Farfuglia qualcosa all’autista in francese che solo parzialmente comprendo e improvvisamente, mi sembra elegante. Mi lascia e scende.

Mi ha detto che il mondo è un brutto posto e mi ha lasciata. Ora mi sento confusa. Si è sbagliata di un’ora. A Cleveland, di venti giorni e tra Santander e Salamanca, sulla strada innevata, non ero più certa di quanti anni avessi. Di recente, ho perso di nuovo la cognizione del tempo, impegnata nella produzione di un ricordo felice. Il mondo è un brutto posto mi ha detto, e mi ha lasciata sola.

Sono andata in ufficio. Il mondo è un brutto posto. Mi sono presa una ramanzina. Consigli ma, ora regole mi è stato detto, data la condotta. Insubordinata. Il mondo è un brutto posto. Mi sono difesa. La giornata era iniziata storta e non accennava a migliorare. Ho saltato il pranzo. Non riesco a sottopormi alla dinamica gruppo, sempre. Al team building, non indosserò il vestito da marinaretto. Assente. Il mondo è un brutto posto. Cercano di trasferirmi la bellezza di stare insieme e che quello che conta è il profitto. Destinatario irreperibile.

Ora basta, torno a casa.

Ho fame. Mi fermo in una rosticceria e la giovane con il cappellino non è molto gentile o incline ad accontentare le richieste sulla trasversale del trancio di pizza. Sarà colpa del copricapo buffo che è costretta ad indossare. Non mi dovrei lamentare. Noiosa trattativa, un accordo e taglia con delle forbici un pezzo di margherita rettangolare. Fuori fa caldo ma, dentro non so dove appoggiarmi. Vado al tavolino in piedi, all’ingresso, occupazione suolo. Faccia al muro. Afferro il rettangolo di pizza ma, è morbido ed è scomodo da addentare, continua a piegarsi. Sono tentata di chiederle se può tagliarmelo in due di modo che non penda. La guardo e mi sembra scocciata prima ancora che fiati. Lo faccio lo stesso. Me lo taglia e torno al tavolino in castigo. Che giornata del cavolo. Ne mangio solo un pezzo ferma lì e poi butto il vassoio e proseguo masticando. Lo zaino pesa un quintale e sono di pessimo umore.

Inizio la discesa verso casa e incontro l’anziano della mattina. È fermo fuori la clinica. Voleva fare un’ecografia. Mi spiega che ha l’esenzione ma, gli hanno chiesto di pagare. Aspetterà settembre, andrà in ospedale. Non abita lontano però, aspetta alla fermata. Si sente pesante, non vuole camminare.

Sull’autobus li sento chiacchierare. Occupano sempre gli stessi posti, come assegnati. Il suo compagno di viaggio è un ottico. Parlano molto spesso di calcio, qualche volta di acciacchi e solitudine. Vorrebbe raggiungere i figli ma, rifiutano. Si sono fatti vivi di recente, quando si è operato alla vista, fuggiti dopo poco. Una volta aveva portato un libricino. Lo stringeva, insieme alla busta della spesa vuota e ripiegata. Era un piccolo manuale sul giuoco del calcio, così aveva detto con entusiasmo, sottolineando l’importanza del contenuto. Glielo aveva lasciato il padre. Voleva prestarlo. L’altro aveva declinato. La sua espressione si era fatta fitta e interrogativa, come se qualcuno si fosse scansato da una pacca sulla spalla. Avrei voluto dirgli, che potevo leggerlo io.

Quando entro in casa, Billie mi fa feste e trovo un abbraccio. Non sono neanche riuscita a guardarla in faccia ma è il posto più comodo dove potevo finire. Mi chiede se sono stanca. Forse voleva uscire e quando le dico di sì, si allontana, sento Stranger Things di sottofondo. Da quando la scuola è finita, non fa altro.

Mi sposto dall’ingresso al corridoio, mi sfilo le scarpe, vado in bagno, mi lavo le mani, arrivo in camera, mi spoglio e mi infilo l’enorme maglia blu con il numero cinquantatré, comprata trent’anni fa a Resina, mi infilo nel letto, sotto le coperte anche se ci sono 28 gradi. Dormo, anche se sono le sei del pomeriggio, oppressa dalla miserabile ricerca di un’emozione, con cui giocare.