Quali sono le persone di cui, come collettività, ci ricordiamo? Sono gli scienziati, gli artisti, i filosofi, gli statisti o altri (alcuni -pochi- sono letteralmente entrati nella storia) che hanno percorso nuove strade fino a giungere a risultati capaci di modificare il nostro modo di essere, di pensare, di fare, di percepire, di interpretare, di comunicare e non solo… Ancora una volta si riaffaccia il mito del nuovo? Certo, da sempre chi innova è portato in palmo di mano, spesso però si trascendono i meriti reali fino a scambiare l’originalità fine a se stessa -ogni riferimento agli sciocchini di oggi idolatrati senza motivo è puramente voluto- con la creatività.

Anche l’intelligenza artificiale, che tanto spaventa molti di noi per la sua capacità di sostituirci, non riesce -quanto meno ad oggi- a far altro che ripetere quello che conosce, ricombinandolo in un modo sempre più sofisticato ma non facendo molto di più. E’ perciò assai poco creativa, la sua innovazione, giustamente (?) definita generativa, è relativa al suo essere uno strumento straordinario capace di realizzare operazioni complesse, senza però reali cambiamenti. Ascoltiamo, ad esempio, la musica composta da questi programmi: è “corretta”, di “maniera” ma non ha alcun elemento di “novità”. Certo, perché l’arte e l’innovazione sono un altra cosa e non possono essere diverse da quello che già conosciamo, cioè ricondotte ad un semplice rimescolare le carte!

La creatività come mito, quindi? Certo, e la progettazione -ora parliamo di fabbricati e dei vuoti tra questi- è uno di questi nostri baluardi. Sono sicuramente di parte ma altrettanto profondamente convinto sia uno dei più belli. Di che cosa si tratta? Ma della capacità di immaginare quello che non c’è e di renderlo realizzabile: progettare, dal punto di vista letterale, significa gettare in avanti, pro-iettare! In altri termini è la capacità di generare il nuovo, in ovvia contrapposizione con la ripetizione di quello che già c’è, ed ha senza dubbio del fantastico.

E’ un valore, è una bandiera, è la spinta al miglioramento, che non può che avvenire se non tramite il liberarsi di abitudini -ripetitive per definizione- fino a generare qualcosa di nuovo, che prenda il posto del vecchio, questo viene migliorato fino a far diventare superato quello che ritenevamo normale (e forse anche non perfettibile).

Da quanto appena indicato dovrebbe apparire con forza come sia necessaria la discontinuità -oggi si usa molto il termine “disraptive”, da molti tradotto con “sconvolgente”- perché il solito non ci consente di evolvere. Non basta, è evidente la (nostra) relazione con quanto (ci) pre-esiste: non si tratta di sparare a caso, di usare in modo disinvolto una presunta libertà (di fare, di pensare, ecc.) ma di avere la capacità di relazionarsi con quanto esiste attorno (ma anche dentro) a noi e di modificarlo, più o meno pesantemente, mettendo in atto processi immediatamente operativi o capaci di generare modifiche nel lungo periodo (oggi nel nostro paese ritenuto impossibile solo pensarlo).

Nessun campo ne è esente, è più rilevante in quelli in cui l’evoluzione tecnologica scardina tutto ciò che non sta al passo con le nuove invenzioni e scoperte ma è presente, con altri tempi e ritmi, anche altrove, compreso quello che più consideriamo immutabile: case e città (affatto eterne ed immutabili, come la storia ci insegna). Ci sono popoli, che non posso indicare come civiltà, votati all’immobilismo, da sempre però l’umanità si è modificata, e quindi pure quelli subiranno questo processo, non adeguandosi ma scomparendo. E’ l’evoluzione, un processo non lineare ma basato su veri e propri salti, compresi quelli all’indietro (a volte, infatti, vi è vera e propria involuzione).

Anche i fabbricati ed i loro agglomerati hanno sempre espresso la civiltà del luogo e del momento, e come tali sono variati nel tempo, ben lo notiamo nelle vecchie città dove gli “stili” succedutisi sono ancora visibili, dando origine a quegli straordinari complessi che sono le città storiche, ricche di variazioni frutto del processo di decadenza dei valori che li hanno espressi per far posto ad altri. La storia della nostra civiltà ci ha fatto conoscere molti innovatori, quegli uomini e donne che hanno modificato lo spazio del loro tempo, quelli dopo i quali nulla è stato più lo stesso.

Oggi però questo processo sembra essersi arrestato: non abbiamo più i geni a tutto tondo, pensiamo a Leonardo da Vinci! Vero che la complessità del mondo contemporaneo avrebbe messo in difficoltà anche colui che è ritenuto la persona più intelligente di sempre e che le grandi novità di oggi potrebbero apparire impalpabili se le confrontiamo con quelle del passato ed è altrettanto vero come oggi vengono osannati dei perfetti sciocchi per aver girato qualche stupido video col telefonino...

Tornando però all’ambiente in cui viviamo, soggetto a codificazione completa, quali sono le categorie di persone cui è chiesto di agire per modificare -in meglio, serve dirlo?- gli spazi con cui entriamo in relazione: sono i professionisti tecnici, gli architetti in primis.

Categoria osannata da taluni, osteggiata da altri. C’è chi li considera “creativi” e quindi li contrappone -anzi antepone- ai calcolatori, incapaci di produrre il nuovo, c’è chi li tratta come inconcludenti, in quanto incapaci di produrre soluzioni concrete, peraltro impossibili se non si ammette di poter uscire dai consueti binari. Non c’è -quanto meno da parte mia- alcun interesse a stabilire chi abbia ragione (anche perché la risposta, ancora una volta, è “dipende”) ma non ci consola il constatare come questo periodo non abbia pressoché nessuna caratteristica per distinguersi e farsi ricordare (se non negativamente), tanto che la vita nei nostri ambienti -singoli e collettivi- per la maggior parte di noi non ha la qualità sperata, men che meno quella desiderata ma nemmeno quella che andrebbe ritenuta “normale” considerando il livello di conoscenza che la nostra società possiede e dovrebbe perciò esprimere.

Che cosa è successo? Tante cose, forse nessuna singolarmente di grosse dimensioni ma l’insieme è enorme. Guardiamoli i nostri (nel senso di quelli di oggi, contemporanei in quanto riconosciuti dalla massa) creativi, creste colorate ed abiti improbabili cui corrisponde assoluta monotonia e maniera- e confrontiamoli con gli autentici innovatori di ogni campo, di oggi e del passato, dall’aspetto rigoroso ma che sono stati capaci di modificare tutto quello che c’era allora ed venuto dopo di loro, noi compresi.

Infatti, la domanda è: ma dove ci troviamo oggi? Dove sono gli artisti capaci di darci un sussulto (non giochini da ragazzino delle medie inferiori per non dire delle “elementari”, e sottolineo quest’ultimo termine...)? Chi è il filosofo capace di andare oltre un banale parere sui fatti di cronaca (e la propria fede politica che lo costringe a pareri affatto obiettivi)? E gli architetti in grado di adeguare il nostro ambiente al mondo irrimediabilmente cambiato? Ma non dovrebbero prevedere quello che verrà e farci trovare preparati, anzi anticiparlo?

L’accusa è giustificata? Si e no. Oggi tutto è normato, per questo i margini di operatività del progettista sono assai limitati, non possiamo prendercela col singolo se non per il modo in cui questo si è mosso tra mille lacci e lacciuoli. La ricerca su chi ha progettato questo ambiente di così bassa qualità si sposta e non è troppo difficile da comprendere, basta interrogarsi un poco senza preconcetti, come deve fare chi davvero cerca risposte, non quelle che gli fanno comodo (magari per rinviare il proprio essere messi da parte) ma risposte “vere”, qualunque esse siano, comode e scomode: - chi ha lasciato rovinare i nostri centri storici (anche quelli di valore inestimabile) non facendo ma lasciando fare (il che non è diverso dal ruolo del palo nelle rapine)?

  • Chi ha prodotto queste assurde zone artigianali e/o industriali (lasciando inquinare, deturpando il paesaggio, rovinando fisicamente e mentalmente le persone e così via)?
  • Chi ha diviso il territorio in zone monofunzionali (altro che la monocoltura, con la “o” ma verrebbe da scriverla con la “u”!) col risultato che abbiamo sotto gli occhi?
  • Chi ha costruito montagne di strutture inutili (si pensi, a solo titolo di esempio, alle scuole, assenti quando i boomers sono cresciuti, presenti in piena maturità del calo delle nascite: non si sapeva che a sei anni sarebbero andati a scuola? O non c’era il tempo? Forse la risposta è un’altra...) e non lo ha fatto con quelle indispensabili (vogliamo parlare della sanità pubblica e quello che è ormai in corso con quella privata?)
  • Chi ha fatto spuntare come funghi quella montagna di assurdità che ha finito per costituire le periferie delle grandi città (ma anche quelle dei paesini non scherzano!)?
  • Chi ha dettato le norme del tutto incapaci di generare spazi di qualità ma solo procedimenti contro coloro che commettono inezie (e vengono trattati come criminali), lasciando del tutto impuniti quelli che commettono gli stessi atti ad un livello più alto e corposo?

Certo, se ci riferiamo al dopoguerra e pensiamo di essere di fronte alla necessità di ricostruire l’intero paese con risorse limitate è difficile anche solo pensare alla redazione di progetti specifici, più facile stabilire in modo astratto un fare generico (anche se ovviamente volto a favorire gli amici degli amici): è la differenza tra progettare e pianificare! Non è un problema di rivalità tra le categorie professionali, non si vuole disconoscere il ruolo di certi strumenti urbanistici (che però nella maggior parte dei casi non hanno funzionato) ma il risultato è del tutto -per usare un eufemismo- insufficiente! Il processo edilizio non è stato governato, lo dimostra la quantità di edifici fuori da ogni norma, non certo riconducibili a barbari o popolazioni giunte dall’esterno.

Questa è già l’ammissione di un indiscutibile fallimento: l’insieme di norme e di strutture per l’applicazione (repressiva) di queste non ha funzionato, e poco importa il voler salvare il “povero” progettista (che scarica la colpa su chi avrebbe dovuto controllare l’applicazione delle sue indicazioni) oppure l’altrettanto “povero” dipendente comunale (che rimanda la stessa colpa al redattore del piano, inapplicabile dal punto di vista qualitativo, se non del tutto avulso dalla realtà). Se il paese è stato letteralmente devastatato dall’abusivismo edilizio, le costruzioni legittime hanno fatto ancora peggio: è stato concesso di distruggere aree di pregio di ogni tipo, per favoritismo o semplice lasciar fare ai propri amici e/o elettori ma il risultato non cambia. Tirando le somme, parziali ovviamente, è mancata la progettazione, perché questa avrebbe impedito di lasciar fare (leggi: rovinare). Questo strumento non è stato centrale ma relegato ad elementi secondari! Al massimo, infatti, abbiamo avuto qualche edificio più o meno riuscito ma questo non può dare qualità ad un intero quartiere o peggio ad una vera e propria città.

Se è così, e piaccia o non piaccia lo è, il ruolo dei progettisti è del tutto ridimensionato -meglio: appiattito- e schiacciato dalla regolamentazione dell’attività edilizia ed urbanistica, che tutto regolamenta, impedendo guizzi e voli pindarici ma di fatto condannando il nostro ambiente alla bassezza più assoluta. Oggi -è un’aggravante- non viviamo più l’emergenza post-bellica e l’ambiente è ormai pressoché compromesso ovunque, vogliamo continuare così o per lo meno tentiamo di lasciare un ambiente un poco migliore, mettendo in atto un processo che, pur con i tempi del caso, possa invertire questa tendenza?

Necessitiamo a tutti gli effetti di una terapia d’urto per sovvertire questa tendenza, anche iniziando oggi saremmo comunque in ritardo, invece ne stiamo (in pochi) solo parlando, nemmeno discutendo. Di fronte a ciò, infatti, che cosa stiamo facendo? Stiamo reiterando il solito superato e già allora insufficiente modo di fare di un tempo, ma nessuno si chiede nemmeno più se si possa fare qualcosa… al massimo molti di noi attendono l’ennesimo condono edilizio per aumentare di valore l’immobile abusivo -perché irrispettoso di tutte le norme- da vendere a prezzo più alto! Sottolineo come questo valore sia maggiore sia economicamente (consentendo un ricavo maggiore a chi vende) che socialmente (perché condanna il nostro ambiente ad una continua regressione ed aumenta i costi di gestione di questo degrado).

Concludendo, i progettisti devono mettere da parte le proprie velleità, siamo stati ridotti a poco più che “applicatori” di un coacervo di regole, il cui senso spesso sfugge, incapaci -regole e progettisti- di generare la qualità minima necessaria, poco più che compilatori di moduli. Non farà piacere a nessuno ma la realtà è che la progettazione da molto tempo non è più compito dei tradizionali progettisti (che non per questo risultano assolti) ma dei politici e degli amministratori (che hanno la totale responsabilità dello sfacelo in cui versa il nostro ambiente e che non possono scaricare tale successo sui loro predecessori dato che stanno agendo in perfetta continuità!).