Anni fa mi capitò di partecipare a un concorso il cui tema, da svilupparsi con una forma d’arte a discrezione, era riassunto dalla parola kairós, termine greco che designa il tempo nella sua puntualità, la giusta misura, il momento opportunamente adatto al singolo per realizzare un progetto o un evento. In un certo senso il risultato stesso di quell’operazione artistica, nata da una sfaccettatura casuale ma immersa nel tempo, sarebbe stata kairós.

Il critico letterario Frank Kermode distingue con acume nel suo Il senso della fine la sfumatura che intercorre tra chronos e kairós ricordando che “Chronos è ‘tempo che passa’ o ‘tempo d’attesa’, quel tempo che, secondo il libro dell’Apocalisse, ‘non tornerà mai più’ – mentre kairós è la ‘stagione’, uno spazio di tempo ricolmo di significati, che ha un significato proprio perché questo significato deriva dall’idea della fine”.

I greci dedicarono molto spazio a questo concetto tanto che Lisippo creò addirittura per Alessandro Magno una sua interpretazione scultorea di kairós tra il 336 e il 334 a.C. descrittaci dal retore Callistrato (Descrizioni si statue, 6) nel IV secolo. Raffigurava un giovane con le ali ai piedi, espressione della fuggevolezza, con la nuca rasata ma con un lungo ciuffo frontale, probabilmente a indicare i due modi di afferrare l’occasione propizia.

Molto affascinante è anche la valenza che il termine ha assunto nella letteratura cristiana delle origini soprattutto nell’uso che ne fecero i suoi autori. Tutto il messaggio del Dio vetero testamentario deve trovare per loro realizzazione in un futuro prossimo. Scrivendo ai Galati, ad esempio, Paolo esprime bene l’idea del compimento del tempo (già presente in Marco I,15 e in Matteo XVI, 2-3) associandolo alla venuta del Cristo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5). È dunque essenziale in ambito teologico comprendere come l’intera storia delle azioni di Dio converga verso un suo centro coincidente con la venuta del Messia (che coincide a sua volta con il kairós).

Date queste premesse imprescindibili, decisi di dar corpo al progetto del concorso attraverso la musica sviluppando un’idea che avevo già sfruttato in via sperimentale per altre composizioni passate. In particolare applicai il principio dell’aleatorietà a una forma musicale rigidamente codificata come la fuga, facendo in modo che il caso venisse forzato tanto da essere imbrigliato in un meccanismo logico. La mia base di partenza non fu, in nuce, assolutamente originale: nel 1641 venne pubblicato a Londra il testo di John Wilkins (1614-1672) Mercury: or the secret and swift messenger, in cui l’autore delineava diversi metodi di comunicazione basati su linguaggi cifrati o su sistemi combinatori.

Uno di questi sistemi consiste nell’utilizzare un ‘alfabeto musicale’, in altre parole nell’assegnare a ogni lettera (vocale o consonante) una nota di valore o intonazione differente. Altro meccanismo analogo, tanto famoso da divenire quasi un evergreen della musica colta, è stato il tema sul nome ‘Bach’ che sfrutta il rapporto note-alfabeto in uso nella musica tedesca.

Seguendo questa linea già tracciata ho assegnato a ciascuna delle 12 note della scala cromatica una corrispondente lettera dell’alfabeto greco (Α=do; Β=do#; Γ=re; etc.) in modo da riuscire a formare una sequenza melodica con le lettere della parola kairós (κ=la; α=do; ι=sol#; ρ=mi; ο=re; ς=fa). Il caso ha voluto che si generasse con queste lettere un soggetto nella tonalità di la minore con il quale ho potuto costruire la fuga a 4 voci dal titolo omonimo tentando (nei limiti del possibile) di comporre il brano seguendo le più strette regole del contrappunto classico.

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Naturalmente il risultato è stato la confezione di un’opera del tutto speculativa e rigorosamente matematica ma nel complesso fruibile. Ed è questa fruibilità che fa nascere sempre il solito interrogativo: è arte? Può nascere arte dal caso? Duchamp e Cage direi che hanno tentato di dare il loro contributo per convincerci che si può fare. Certo che a ben pensarci, un altro dilemma si pone ed è quello sul ruolo che le regole dell’armonia ricoprono nel campo della composizione: sfruttandole nel modo a ciascuno più congeniale, qualunque movimento di parte, concatenazione accordale o sequenza di suoni ottiene una sua giustificazione teorica. Questo significa che, paradossalmente, anche coloro che nulla sappiano di teoria musicale e che si improvvisino compositori, sono comunque imbrigliati da strutture teorico-musicali già codificate o facilmente rintracciabili in qualche manuale: tutto è sottoposto a una qualche legge, è inevitabile.

Dal caso si sviluppa il rigore matematico ma è anche vero che la matematica tenta da sempre di trovare un ordine nel caso (e nel caos). La musica e le sue regole, ne sono sempre più convinto, si comportano più o meno nello stesso modo. Un’ultima cosa. Se qualcuno si chiedesse come andò a finire il concorso la risposta è ambigua ma vera: non ebbe né vincitori né vinti.