Suonala ancora, RAP. Anzi, raccontala. Una fiaba, come quelle che ti ispiravano da bambina. Con i buoni, i cattivi, i “buoncattivi” sempre in bilico. Con i sogni, gli spauracchi, i ghiribizzi, i piagnucolii, il lieto fine, l’afflitto fine. I personaggi? RAP è già perfetta. Poi c’è Zib. Senti come suona: c’era una volta una fanciulla di nome Zib.

Chiara Rapaccini, pittrice, scultrice, designer, illustratrice, scrittrice, è nata a Firenze e vive a Roma, dove insegna Illustrazione per bambini all’Istituto Europeo di Design. Ha esposto in mostre personali nei vari continenti, le sue vignette satiriche Amori sfigati furoreggiano sui social.

In arte RAP, ha nel catalogo delle sue opere (immateriali) il capolavoro di aver vissuto un amore sconvolgente, da ogni punto di vista, un amore che avrebbe potuto esserle fatale, e nonostante tutto, di aver trovato la sua strada. E che strada.

“Zib sta per zibibbo, l’uva passa densa di zuccheri, buonissima ma nauseante”. Ce la chiamava il geniale Mario Monicelli che rifiutava l’appellativo di Maestro, ma lo era, sarebbe ridicolo citare i suoi film che sono i… soliti noti, ed era circondato da tutti i geniali maschilisti della commedia all’italiana.

Siamo nel bel mezzo dei Settanta: Chiara Rapaccini è una donna di 19 anni, Monicelli un uomo di 59. Avranno una figlia, Rosa. Scrive RAP in Mio amato Belzebù: “Preparati Zib che andiamo a cena con Marco, Aurore, Catherine, Marcello eccetera…”. “Ma come eccetera? Chi sono gli eccetera? E poi: Marco chi? Aurore chi? Catherine chi? Marcello chi?”. “Ferreri, Clement, Deneuve e Mastroianni”. Panico. “Ma come mi devo vestire?”. “Come ti pare, sono gente alla buona…”. “Gente alla buona? Ma cosa dice? No, sono gente alla cattiva, sconosciuti, potenti e minacciosi. E soprattutto, come si veste una ragazza appena sbarcata a Parigi dopo essere scappata di casa (e aver assassinato la madre) per uscire a cena con una manciata di star?”.

Racconta ancora, RAP, perché ci incateni alla poltrona.

Da Firenze a Roma?

Firenze è la mia città che ritengo un po’ noiosa. In quel momento, a metà anni Settanta, però è vivacissima anche perché ho scelto l’arte, nonostante il desiderio materno di una mia appartenenza alla Firenze bene.

Da ragazzina frequento i palazzi, i nobili, che sono noiosissimi, soprattutto i maschi, e decido di seguire il mio animo che è artistico. Mi piace disegnare, compro i colori, le tele. Intercetto una Firenze brulicante di artisti che hanno la mia età, che vengono dall’Irlanda, dall’Inghilterra, sono cantanti, musicisti, faccio la modella da Enzo Faraoni, grandissimo pittore tardo macchiaiolo per cui poso nuda. Da lui imparo a disegnare. Canto con David Riondino nel gruppo Victor Jara con il quale facciamo opere rock alle feste dell’Unità, canto nel coro del Carmine, musica seicentesca, e lavoro come baby-sitter, guadagnando un fracco di soldi con gli americani. Questo è il quadro di una Firenze mai così vivace, cioè lo era stata, ma a fine Ottocento.

Molta droga, ma io non mi drogo, o solo un po’. Molti amici morti di droga. Vivo in una comune a Poggio Secco, in campagna, in un turbine di danze e strumenti irlandesi. La vita per me è meravigliosa, sono una ragazza felice di vivere, in questo mondo che mi sto conquistando da sola: se fosse dipeso dalla mia famiglia borghese non ci sarei finita mai. Poi il primo incontro con Mario Monicelli. E il passaggio a Roma.

Roma?

Prima c’è l’incontro con Monicelli che avviene a Firenze. La vita fiorentina che ho descritto viene in qualche modo interrotta da una novità che è il cinematografo: faccio già la comparsa al Teatro Comunale e così mi fanno fare la comparsa nel film Amici miei (1975 n.d.r.) che Monicelli gira in qua e là. Di notte ho un ennesimo impiego: telefonista notturna a Palazzo Benci, dove abita la troupe. Sono tutti i giorni sul set come comparsa semplice, i miei genitori lavorano anch’essi nel film come comparse parlanti perché Monicelli, al di là di me, ha scelto mezza Firenze. Inizia un corteggiamento particolare di Mario, con mille episodi che ricordo, e una sorta di passione mia per questa gente strana. Per me è il top perché non c’è niente di meglio del cinema o del teatro per quelle che amano la finzione. Io amo fingere. C’è l’incontro e io seguo a Roma Mario e i barbari che hanno occupato la mia città. Ho capito che il mio destino, al di là dell’amore, è seguire l’ignoto. E il cinema è davvero l’ignoto.

Parliamo di Monicelli, ma prima approfondiamo il discorso sulla finzione.

L’origine psicanalitica della mia inclinazione non saprei dirtela. Da bambina piccola ero molto attratta dalla cultura della nonna austriaca. C’è una grande componente del Nord Europa nel mio amore per la finzione. Le fiabe tedesche e austriache, i boschi, la neve, i calendari di Natale con le finestrine fanno breccia in me più che in altri, divento matta. Anche gli aspetti crudeli mi affascinano: Pierino Porcospino, le punizioni, le tombe. Seconda componente: sicuramente ho un piccolo neo artistico che viene da mio padre, la mia mamma mitteleuropea è molto più razionale. Mio padre è un avvocato contro se stesso, non gliene frega un accidente della professione. Disegnatore formidabile, sceglie me come sua musa e compagna di fantasia e di passeggiate. Mi ritrae, mi racconta storie tutto il giorno, mi fa conoscere l’arte di Firenze: “Oggi ti faccio vedere il Masaccio, guarda i rossi, guarda i verdi. Conta i verdi. Guarda il tuo golf e dimmi che cosa c’è dentro”. Mi rendo conto, ora che insegno, come il tipo di insegnamento paterno fosse brillante. Io sono attratta dal bello e dal finto e quando finisco, per caso, a fare la comparsa al Teatro Comunale mi piacciono l’odore del legno delle tavole del palcoscenico, la musica di Mussorgsky, spogliarmi, rivestirmi, le sarte, passare le sere ad aspettare il mio ingresso, miserabile, al quarto atto. Gli altri, di Lotta Continua, Potere Operaio, dicono che il tutto fa schifo. La politica ci dice di odiare l’arte, in quanto borghese, quindi io mi sento in colpa di amarla, ma il suo fiume mi trascina. Poi arriva il cinema.

Il tuo senso dell’umorismo?

Viene da Firenze, proprio maledetti toscani. Mio padre avrebbe potuto essere uno degli Amici miei: era vicino a quelle persone fra le quali Monicelli ha cercato, e trovato, materiale per il film. Firenze, così tranchante, cattiva, non ha rispetto della morte, di niente. Mi appartiene moltissimo. Mia madre… umorismo questo sconosciuto. Con i miei amici, quasi tutti toscani, ridiamo tanto: siamo buttati a Santo Spirito, da Sabatino, sempre in quindici, sedici. Ridiamo, e parliamo, anche. È il momento dei gruppi psicologici: “Io sono triste. Tu pure. Perché?”. È il post ’68, gli anni Settanta, grandi anni secondo me. Io ero felice di appartenere a quel momento politico. È denigrato, ma non c’è nessun motivo di denigrarlo. E Monicelli. Il mio senso dell’umorismo s’incontra con quello totalizzante della commedia all’italiana. Mario è mezzo toscano, viareggino, circondato da un gruppo di sceneggiatori che tutto il giorno fabbrica battute, e io imparo i meccanismi linguistici per arrivare a folgoranti sintesi. Ridono sempre e se uno è noioso viene massacrato.

La conoscenza con Monicelli?

Mi ingaggiano come comparsa in Amici miei. Io non so niente di cinema, non so chi sia Mario Monicelli perché eravamo un po’ ignoranti. Andavamo al cinema Universale, ma non ce ne importava niente dei registi (nel teatro avevo imparato un po’ a distinguerli), conoscevamo Mastroianni, Tognazzi e cinque attori americani. Faccio la comparsa semplice, come fioraia. Mi chiamano un po’ troppo spesso, gli amici sono gelosi: le comparse non possono mai esserci troppo sennò gli spettatori si accorgono che sono le stesse. Comincio a essere molto affascinata da questa nuova “fiaba”, conosco Monicelli perché è il regista e lo vedo anche in albergo dove sono portiera notturna. Di giorno giro e di notte sono sveglia: i cinematografari passano, vanno a cena fuori, Philippe Noiret, gentiluomo d’altri tempi, è l’unico della ghenga che non si interessa di cibo. Mario è molto gentile con me.

C’è la prima manifestazione femminista fiorentina a cui io partecipo, in piazza Santa Croce: siamo molto comprese delle nuove rivendicazioni, dei magnifici slogan, iper liberi, tremendamente fantasiosi, giusti e osè: “Dito dito, orgasmo garantito”. “Io sono mia”. Gli uomini sono appoggiati ai muri, genere villaggio sardo o siciliano, fumano e non sanno che pensare di noi. Sono contenta, hippie, capelli al vento, avvolta di velluti. Orecchini, trecce, mi piaceva molto quella moda. E Mario, sto’ vecchio di sessant’anni, 59, io ne ho 19, osa entrare nel corteo, si avvicina e dice: “Mi scusi, signorina, sono Mario Monicelli, il regista del film, ma lei, detto fra noi, è sicura che riuscirà ad affrancarsi da noi maschi?”.

Io sono subito seccata: “Guardi che lo so chi è lei” mi stava provocando a livelli inimmaginabili e credo ci sia stata la prima scintilla d’amore. Mi ha beccato già da giorni, mi sta facendo fare la comparsa troppe volte, ha questi occhi magici. Io gli rispondo di sì, gli faccio capire che si tolga dai piedi, lui sorride, con questo sorriso diabolico, da Belzebù, mi ribello: come si permette un uomo a entrare nella mia gioventù, ma sono ormai incastrata. Lo rivedo, mi invita a cena, non voglio andarci. I miei genitori, che non pensano ci sia dietro della roba di sesso o di amore, credono che mi abbia scelto come attrice e mi dicono di accettare. In Turgenev c’è una scena simile. Quando decido di andare, e mi dicono che sono brava, io so che vado verso la perdizione. C’è una cena e altri appuntamenti dove non succede nulla. Succederà qualcosa solo dopo un anno, ma sono già caduta nelle mani di Monicelli.

È una storia cinematografica.

Sì. Poi io te la racconto esagerando. Esagero qualsiasi cosa. Invento, anche. Ho scritto il libro come una sceneggiatura. Mario mi ha molto insegnato a rompere le scene madri con le scene figlie. Col cinema lui l’ha fatto sempre: scena d’amore? Parte la controscena. Mario non ha mai girato un film con scene romantiche. Oppure gli sono venute orrende.

Disse: Manoel de Oliveira e io siamo gli ultimi grandi registi morenti.

C’era una “guerra” su questo tema tra lui e de Oliveira che incontravamo ogni anno ai festival, occasioni belle perché Mario rivedeva gli amici stranieri. Woody Allen, John Cassavetes, Robert Altman erano tutti adoranti, “maestro, maestro”, io ero incredula. Altman si inginocchiava, ridendo. Il nostro cinema aveva un’eco americana che nessuno sa fino in fondo. E, dunque, con de Oliveira si incontravano ogni anno sempre più vecchi e si dicevano: “Vinco io. No, vinco io”. E la vincita era la morte: era più figo chi moriva.

Allora è stato più figo Monicelli.

Due grandissimi. Tutto è molto interessante, al di là delle battute, per il rapporto che avevano con la morte. Non gliene fregava, a chi più, chi meno, un accidente. C’era vicinanza, in quella generazione, col fatto di essere mortali. Mio padre, mia madre erano così. Un atteggiamento che calma, perché peggio della morte non c’è niente. Ora facciamo di continuo la TAC, la tuc, la tic. Anche io ho poca paura di morire. La vecchiaia invece mi fa molta paura, l’essere brutta. Devo fare un libro sull’argomento: affrontiamolo una volta per tutte. Magari una graphic novel - passo da un genere all’altro in un modo schizofrenico - disegnare le rughe. Aiuterebbe le donne a sdrammatizzare, riprenderebbe un po’ quelle lotte degli anni Settanta.

La nascita del titolo Mio amato Belzebù (sottotitolo: L’amara Dolce vita con Monicelli e compagnia)?

I titoli ipotizzati sono stati una quarantina. Io sono titolista, ci sto attenta. L’immagine di copertina è un Mario camuffato. Avevo questa foto molto bella del set di Caro Michele (1976 n.d.r.). Mario, non riconoscibilissimo, stava mostrando a Mariangela Melato come trasportare una carrozzina piena di utensili. Era vestito orribilmente di nero, allora ho pensato alle corna di un demonio. Dopo una lunga ricerca di diavoli ho scelto l’aramaico Belzebù, il più bello, che è il signore delle mosche, delle cose rivoltanti. Io mi sono disegnata dentro la carrozzina. Belzebù e l’aggettivo “amato”: un ossimoro. Rispecchia il libro: dico e nego. Nego e dico. Posso dire tutto e fra un minuto cambiare versione.

Quindi questa intervista potrebbe essere diversa?

Sì, certo. Mi dimentico quello che ti ho detto e ti racconto un’altra storia.

Monicelli su di te?

Non sappiamo, nella sua mente, che volesse dire avere una compagna così giovane. Ha avuto mille ripensamenti, ci siamo lasciati due volte, si sentiva responsabile di una follia. Era sposato. Alla fine siamo stati quasi quarant’anni insieme, e anche se ci siamo separati, sono sempre stata accanto a lui. La sera prima che si buttasse dalla finestra, avevo cucinato spaghetti al pomodoro (Monicelli era nato nel 1915 ed è morto il 29 novembre del 2010 n.d.r.). Di sicuro cercava di farmi essere meno drammatica, io ero immersa nei massimi sistemi della gioventù, pessimista, nonostante mi vedessero solare. La facevo lunga, ero noiosa, lo indispettivo, lo stancavo, lo divertivo. “Ridimensiona. Che sarà mai” mi diceva. Perché era vecchio, sapeva. Esercitava la saggezza dei vecchi che adesso ho anche io, ma mi ci sono voluti sessant’anni! Mi chiamava “l’oca pazza” perché cambiavo continuamente umore, avevo caldo, avevo freddo nello stesso minuto. Monicelli era un uomo molto indipendente, non era diventato schiavo della lolita, che, comunque, non ero, ma sapeva che potevo fregarlo, credo che temesse tradimenti. Però conosceva donne più belle di me ed era adorato dalle attrici. Quindi era vecchio e poteva temere, ma io temevo lui. Ci siamo traditi. Mi ha tradito con attrici importantissime che non nomino, che erano libere e alle quali non importava nulla che ci fossi io. Dunque il gioco era, alla fine, più equilibrato di quel che si potesse immaginare. Eravamo entrambi intelligenti, autonomi… cioè, io un po’ meno perché ero edipica, innamorata del mio babbo. Un tipico caso.

Quarant’anni di differenza, senza ricalcare nessun esempio…

Ma non c’erano esempi! Non ci sono unioni con quarant’anni di differenza. Ce ne saranno state altre tre in Europa. La mia psicanalista romana Eleonora Trevi, la mamma di Emanuele, lo scrittore (gente intelligentissima), infatti era molto interessata a studiarmi. Invece nessuno mi ha studiato e ho scritto il libro per dire almeno qualcosa: Mario pensava alla morte mentre io pensavo alla vita, alla maternità. Gli ideali erano opposti, ma le due persone si trovavano nella finzione di un terzo mondo solo loro.