Nel corso dei secoli, l’umanità ha saputo creare opere tali da lasciare senza parole. Purtroppo, molte meraviglie sono andate perdute, vuoi per l’incuria, vuoi per la mano distruttiva di menti incapaci di apprezzarne il valore. A volte, si è corso persino il rischio di non poter nemmeno vedere quel poco che ci è arrivato dal passato. Un esempio, celebre, è il Mosè di Michelangelo.

Storia complessa, quella del Mosè. Iniziò tutto, con una tomba e un papa. Il papa in questione era Giulio II, più un principe rinascimentale che un vicario di Cristo, con manie di grandezza seconde solo a quelle del suo antico omonimo, quel Gaio Giulio Cesare che diede il colpo di grazia alla Repubblica morente.

Giulio II voleva una tomba maestosa, nella casa di Pietro, per guadagnarsi l’unica gloria che davvero è eterna: il ricordo degli uomini. Per farlo, chiamò l’artista che più di tutti lo avrebbe capito: Michelangelo Buonarroti.

Il rapporto tra il papa e l’artista fu complicato. Caratteri troppo simili. Ma anche questioni lavorative: dopo l’iniziale entusiasmo per la tomba, l’interesse di Giulio II venne dirottato altrove, e Michelangelo si ritrovò senza finanziamenti. Sembrerebbe la fine del rapporto di lavoro. Non fu così.

Quando Michelangelo scappò da Roma, il papa lo fece andare di nuovo a prendere, per commissionargli l’affrescatura della Cappella Sistina. Ci vorranno quattro anni, in cui Michelangelo darà tutto sé stesso, sacrificando la sua stessa salute. Ma il risultato fu tale che nemmeno la Controriforma poté abbatterla.

E la tomba? Lavori continuamente rinviati, tanto che, quando Giulio II morì, Michelangelo si ritrovò a corto di soldi, e con un progetto pesantemente ridimensionato. Non si perse d’animo, ma sembrava che la tomba fosse maledetta: ogni nuovo papa gli commissionava una nuova opera, e lui doveva mettere da parte lo scalpellino e i progetti per la tomba del papa, e dare anima e corpo ad altri progetti. Finì che per Giulio II scolpì solo tre statue, tra i più alti capolavori dell’arte italiana: il Mosè, Lia (la vita attiva) e Rachele (la vita contemplativa).

Il Mosè scolpito da Michelangelo non è quello della Bibbia. Non è il Mosè collerico che alla vista del popolo che adorava un vitello d’oro scagliò a terra le tavole della legge, spezzandole. Questo Mosè non è un uomo preda dell’ira, ma un uomo combattuto tra irruenza e fermezza interiore, la rabbia evidente nello sguardo ma trattenuta dall’autocontrollo, che ha avuto la meglio sul sentimento irrazionale. Quel che lo spettatore coglie, non è l’azione, ma ciò che è venuto dopo, il residuo di un movimento già passato.

Questo Mosè non cederà all’impulso di distruggere le tavole della legge e vendicarsi, ma la tentazione è stata vinta, rimarrà seduto in un atteggiamento pieno di dolore per il popolo guidato fuori dall’Egitto. Sembra ironico che proprio un uomo come Michelangelo abbia creato un personaggio che fosse anti ira, lui che non era mai stato dolce di parole con papa Giulio II, e che aveva sempre da dire su tutto. Ma il Mosè è anche frutto di quarant’anni di rinvii, di una vita lunga, dove l’artista ha visto sconvolgimenti epocali e sofferto numerosi lutti. Il più sconvolgente, quello a seguito della morte dell’amica Vittoria Colonna, su cui si piegò piangendo per darle l’ultimo bacio.

Il Mosè è frutto anche di questo. Di un dolore che non conosce rimedi, dell’azione che si è fatta inazione, dell’attesa per l’arrivo del momento finale. Mosè un po’ mago, un po’ cornuto, questo particolare dei ricci arrotolati un esempio di errore di traduzione della Bibbia, dove l’ebraico karan è divenuto keren. Non un errore da poco: uno significava raggi emanati dal volto dell’eroe, l’altro, meno poeticamente, corna. Michelangelo se ne accorse tardi, e le corna rimasero, anche se fatte passare per capelli. Un esempio di genialità: la capacità di improvvisare. Se avesse dovuto buttare tutto per un singolo errore, noi avremmo perso un’opera d’arte, e Michelangelo la voglia di lavorare a quella tomba che era divenuta il suo incubo.