Dell'installazione 24 HRS in Photos presentata nel 2011 da Erik Kessel si parla ancora e se ne continuerà a parlare, probabilmente, per parecchio tempo. L'idea del gallerista olandese è tanto semplice nella sua elaborazione quanto paradigmatica nei risultati, ossia scaricare e stampare in formato 10×15 tutte le immagini postate su Flickr in una singola giornata, per poi riversarle – concretamente – all'interno della Foam di Amsterdam. Se la lettura dei dati relativi al costante flusso di immagini condivise sul web potrebbe apparire come un esercizio indefinito, l'ambiente offerto ai visitatori della mostra è invece fortemente indicativo: dune, colline, promontori di fotografie concretizzate in uno spazio reale, come accadrebbe se fossimo ancora nell'era della riproduzione e condivisione analogica delle immagini.

L'intuizione di Kessel dona tangibilità a ciò di cui abbiamo una cognizione abbastanza vaga e astratta, esibendolo così in tutta la sua inarrestabile presenza materiale. Come aveva fatto osservare Michele Smargiassi,1 inoltre, la saturazione dello spazio fisico necessario a contenere queste immagini rende esplicito il più grave problema dell’esaurimento dello spazio mentale in grado di registrarle; lo stesso fenomeno per il quale Umberto Eco ha suggerito, parallelamente, la definizione di complesso di Temistocle.2

Sembra quasi di ritornare, in parte, alla vecchia ma sempre attualissima tesi proposta da Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo cui l'introduzione di una tecnologia in grado di produrre delle copie identiche di una data opera fa perdere a quest'ultima la propria «aura», cioè la forza comunicativa e l'espressività. Ma in tale scenario di eccedenza iconica, in cui ogni potenziale osservatore rischia l'atrofizzazione e il soffocamento, può avere ancora senso parlare di fotografia?

Prima di rispondere a questa domanda capziosa ma comunque necessaria, è utile premettere che l'atto del fotografare, concettualmente, non è mai cambiato: alla base c'è sempre la volontà di un soggetto che seleziona una specifica porzione di realtà, la fissa – o la «immortala», come si dice di ciò che può essere perpetuato nella memoria – e la conserva poi per il futuro. Quel che nel corso del tempo muta sono il mezzo tecnico adoperato e il supporto nel quale l'immagine viene poi collocata, ma il gesto che dà avvio al processo è sempre il medesimo. Da un lato, quindi, un atto creativo che seguita a ripetersi con le stesse modalità da oltre un secolo e mezzo, e dall'altro la facilità sempre maggiore di compierlo, laddove la scelta volontaria di chi fotografa si fa spesso compulsione e il risultato quello che gli anglofoni chiamano image overload.

Ed è proprio qui che trova risposta la domanda formulata in precedenza. In mezzo all'esubero asfissiante di immagini che da un paio di decenni almeno ci minaccia, di fotografia e di fotografi non solo si può parlare, ma è persino indispensabile farlo, perché nel magma attuale che ci avvolge bisogna giocoforza separare l'approccio realmente creativo e artistico di chi fotografa avendone contezza dalla frenesia visuale di chi affastella immagini più o meno a caso. La buona fotografia non può liberarci automaticamente da quella cattiva, ma siamo noi che abbiamo la possibilità – se non il dovere – di cernere e vagliare, di scindere il superfluo da ciò che può rivelarci qualcosa di importante. L'arte, di norma, non bussa alla porta di nessuno; per il suo e il nostro bene, invece, sarebbe meglio che l'andassimo a cercare...

Partire da lontano a volte giova, soprattutto quando, con una premessa estesamente articolata, si ha la possibilità di mettere in risalto ciò di cui si vuol trattare e allo stesso tempo di contestualizzarlo nel migliore dei modi. A Nanni Licitra avevo già dedicato un mio intervento. Tornandone a parlare, mi viene spontaneo ripercorrere le istantanee che componevano quel progetto e riconsiderarle adesso, attraverso questi nuovi scatti che, per l'occasione, ne diventano una cartina al tornasole. La prima cosa che mi colpisce, a parte una lampante coesione stilistico-formale, è il fatto che al cambio dell'apparato fotografico – lì una Polaroid, qui delle 35mm – e al mutare dei soggetti prescelti, corrisponda un'organicità tematica fortissima. Se, in accordo col titolo, le istantanee appartenenti alla serie Still Life mostravano tutte degli spazi antropizzati ma in cui la presenza umana era insieme latente e manifesta, qui a prevalere è quasi sempre la figura umana in sé; talvolta nella sua interezza, assai più spesso in porzioni mutevolmente ampie, talora agganciata a un ben preciso ambiente e altre volte irretita in uno spazio abbacinante o cupo che ne assolutizza il contenuto e lo rende astratto. Malgrado ciò, un ponte ideale corre fra gli scatti più datati e questi ultimi, finendo poi per unirli.

Geoff Dyer, nel saggio L'infinito istante, sottolinea l'estrema facilità di un errore nel quale inciampano molti studenti di fotografia e persino degli addetti ai lavori, e cioè identificare un autore per mezzo di un soggetto – che viene così attribuito convintamente a lui e a lui soltanto – quando in realtà lo stesso è condiviso e replicato da molti altri.3

Succede pure, tuttavia, che un fotografo riesca a concentrarsi su un certo range di temi e di soggetti e li faccia propri a tal punto da riuscire a mostrarli in una chiave affatto personale e da una prospettiva che è unilateralmente sua, specifica e distintiva, così che all'osservatore – smaliziato o meno – non accadrà mai di attribuirgli uno specifico soggetto, bensì una precisa modalità espressiva. Non a caso, esplorando gli scatti di questo fotografo, riscontriamo ovunque la stessa icasticità, il contrassegno; poco importa che siano stati effettuati, come alcuni, a Las Vegas, o, come altri, nell'estrema provincia siciliana, perché saranno sempre e irrimediabilmente suoi, quasi contenessero una firma implicita.

Nella brochure della mostra Ragusa sottosopra – l'ultima di Nanni Licitra, allestita di recente presso la Galleria Susanna Occhipinti – compare in esergo una citazione di David Wojnarowicz tratta dal suo Close to the Knives: A Memoir of Disintegration:

Darkness has completely descended onto the landscape and I stood up and stretched my arms above my head and I wondered what it would be like if it were a perfect world. Only god knows. And he is dead.4

L'esibizione era stata inoltre preceduta, riprendendone numerosi scatti, da Hell End in Hell, un fotolibro i cui testi provengono tutti dal medesimo volume di Wojnarowicz. Sono indicazioni importanti, queste, giacché permettono sia di entrare in contatto con le fonti di Nanni Licitra, ma, soprattutto, con un termine che rappresenta una delle cifre più importanti della sua attività: «disintegration».

Cos'è la disintegrazione? Letteralmente, è quel processo che priva un corpo della sua unità, che lo riduce in frammenti. Guardando i lavori di questo fotografo, si intuisce subito come il concetto faccia doppiamente parte del suo universo creativo. In alcuni scatti la disintegrazione avviene attraverso un frazionamento dei corpi, come in ɐlqI ɐsnƃɐꓤ #1, vera e propria sineddoche visiva dove alla porzione inferiore di un volto e a quella superiore di un abito è demandato il compito di trasmettere l'intera persona (oppure quello che nella pienezza del corpo, forse, non sarebbe apparso in maniera altrettanto palese?).

In altri scatti, invece, è la luce a disintegrare il soggetto, fissandolo entro una cornice ora abbagliante ora impenetrabilmente nera, come avviene in Little Dark Age, dove di un volto corroso fino ai minimi termini dalla sua stessa luminescenza non rimangono che i contorni e, al centro, come ultimi resti di una fisionomia oramai perduta, occhi e bocca; o come in Untitled #2, che, viceversa, mostra un ambiente in cui la luce sembra voler fagocitare tutto, quasi in una sfida manichea nella quale contendere lo spazio vitale ai soggetti posti al centro dell'inquadratura, una luce lattescente in grado di imporre la propria influenza su tutto quello che vi si frappone, un bianco «che respinge tutto ciò che gli è inferiore […]; un tipo di bianco che non è creato dalla candeggina, ma è esso stesso candeggina».5

In alcuni casi, come in Untitled #1, questa doppia modalità declinatoria finisce poi per coincidere all'interno dello stesso scatto. Il contesto è anche qui disgregato fino all'annullamento, ma non per effetto del biancore o dell'oscurità, bensì attraverso un grigio granuloso che è l'emblematica fusione di tali dimensioni. Al centro di questa cornice ideale e neutra sta una figura umana inquadrata tre quarti di spalle, di cui ravvisiamo solo la schiena e il capo leggermente chino. Il contrasto fra la geometria esatta dell'abito e il confuso ghirigoro della testa risulta subito nettissimo, catturando lo sguardo dell'osservatore. Dove sia proiettato quello del soggetto non è possibile saperlo, né per ipotesi né per approssimazione, ma sicuramente in quel mondo fuori dal mondo, che sta al di là dell'inquadratura, in quell'oltre che il fotografo ha deciso perentoriamente di escludere; ciò che ci rimane è questa statica porzione d'uomo, a cui l'effetto mosso dona però una significazione ulteriore: il corpo è anche qui disintegrato, ma, in un certo senso, lo è per eccesso, per quell'inevitabile moltiplicazione che percorre come uno spettro tutta l'arte del Novecento.

A proposito di quello che viene omesso dall'autore di uno scatto a favore di ciò che è invece incluso al suo interno, si tratta di una questione annosa e che coinvolge la fotografia – così come altri media – nella sua globalità. Tuttavia, è innegabile che questo procedimento del “non mostrato” risulti di particolare evidenza per alcuni fotografi, rispetto ad altri per i quali è solo contingenza. Le foto di Nanni Licitra, come nel caso di quella appena descritta, ci obbligano spesso a porci più di un interrogativo su quel che potrebbe esserci al di là dei confini dell'inquadratura, una domanda insieme sostanziale, inappellabile ma a cui non è possibile fornire una risposta. Lo sguardo del fotografo, e la scelta che vi sta a monte, ci obbligano a far ricorso al suo hic et nunc, a concentrarci su quella porzione di tempo e spazio che ha voluto congelare, e, simultaneamente, a perderci oltre questi bordi; talora ne seguirà una partecipazione attiva, utile a dare significato al contesto, altre volte il dubbio sull'inessenziale che sta, o potrebbe stare, oltre le dissolvenze.

Ero partito da lontano e torno ad allontanarmi nuovamente, ma solo in apparenza. Nel recente caso letterario Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, il protagonista del romanzo osserva a un certo punto gli occhi della ragazza di cui è innamorato – una fotografa – intuendo la diversità del suo sguardo: «Erano occhi ardenti e albeggianti, eppure terribilmente tesi verso lontananze imprendibili, come se vedesse qualcosa che per tutti noi era indecifrabile».6 Ciò che si coglie in questa descrizione è proprio il dono del fotografo, quello di saper vedere dove gli altri non vedono, o vedono altrimenti; quello di sfruttare la propria immaginazione, e la rappresentazione che ne viene, per scavalcare l'overdose d'immagini di questa nostra era transestetica. Ed è l'esperienza che rivelano gli scatti di Nanni Licitra: la consapevolezza di uno sguardo che sa oltrepassare le dimensionalità più consuete per cogliere ciò che sta fuori dall'orizzonte percettivo della vista altrui.

Note

1 Michele Smargiassi, Sono troppe?, articolo apparso su Repubblica, 16 novembre 2011.
2 Umberto Eco, Dall'albero al labirinto, La Nave di Teseo, Milano, 2007, p. 108.
3 Geoff Dyer, L'infinito istante. Saggio sulla fotografia, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 142.
4 «Le tenebre sono completamente scese sul paesaggio e mi sono alzato e ho allungato le braccia sopra la testa e mi sono chiesto come sarebbe se fosse un mondo perfetto. Solo dio lo sa. E lui è morto».
5 David Batchelor, Cromofobia. Storia della paura del colore. Bruno Mondadori, Torino, 2001, cit. pp. 2-3.
6 Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, Milano, 2022, cit. p. 339.