Al principio non avevano nome, poi nel 1920 arrivò Karel Čapek e li chiamò ROBOT.

Il termine deriva dal ceco Robota, letteralmente lavoro forzato/lavoro pesante e compare per la prima volta nel dramma I robot universali di Rossum dello stesso Čapek. In realtà il buon Karel si appropriò di un suggerimento del fratello Josef, scrittore e pittore cubista che aveva già esplorato l’argomento in un suo racconto datato 1917, ma aveva usato il termine AUTOMAT, automa. Nome piuttosto buono, ma mai affascinante come quello che ha segnato l’inizio di uno dei temi più prolifici della fantascienza: il robot, la macchina umana.

Prima dei fratelli Čapek l’idea di possibili persone artificiali era stata affrontata varie volte, da molteplici punti di vista con risultati differenti. Il nostro Da Vinci nel 1495 aveva iniziato un progetto per un cavaliere meccanico (sì, eravamo sempre noi i primi un tempo) e nel racconto di Hoffman L’uomo della sabbia tutta la vicenda ruota attorno alla possibilità di costruire esseri meccanici talmente rassomiglianti agli umani da potersene innamorare. Ippolito Nievo nella sua “storia dei secoli futuri” non li chiamava robot ma omuncoli e con l’arrivo delle rivoluzioni industriali la questione si fece ancora più interessante. Edward S. Ellis nel 1865 scrisse Steam Man of the Prairies e vent’anni più tardi Luis Senares diede alla luce L’uomo elettrico.

Poi un bel giorno arrivò un signore chiamato Isaac Asimov, coniò la parola robotica e il mondo della fantascienza (e non solo quello) non fu più lo stesso. L’idea centrale di Asimov è tanto semplice quanto brillante; in molti avevano parlato di robot, ma nessuno aveva mai problematizzato la loro esistenza in un possibile contesto reale. Cioè cosa effettivamente comporterebbe l’esistenza di un prodotto umano che emula in tutto e per tutto il suo creatore e che ha ciò che il suo faber non avrà mai: l’immortalità. Per questo motivo Asimov crea le tre leggi della robotica enunciate nel capolavoro Io, robot. La regolamentazione dell’esistenza degli uomini macchina secondo un codice comportamentale li rende un prodotto reale e non più una fantasia.

Ecco le tre leggi:

  1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno.
  2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che contrastino con la Prima Legge.
  3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.

Ed è grazie a queste tre leggi che poi negli anni successivi molti autori si sono chiesti una domanda cruciale. Cosa potrebbe succedere se i robot di punto in bianco si rifiutassero di rispettare le tre leggi? Ma adesso, dopo questo lungo preambolo, arriviamo al dunque, con un’altra questione e un’altra domanda. Se uniamo la creatura con il suo creatore in un solo essere, possiamo eludere le tre leggi? E soprattutto cosa ne viene fuori? Dopo questa domanda il mondo conobbe i cyborg e se ne innamorò perdutamente.

Il cyborg porta con sé una doppia eredità in dote dai suoi padri, una coscienza e un libero arbitrio (a volte sopita, ma rapida a svegliarsi) e le prestazioni superiori di una macchina. Di fatto i cyborg possono appartenere a due categorie; esistono gli esseri umani potenziati da applicazioni robotiche oppure gli androidi, cioè robot umanoidi con apporti biologici per assomigliare agli esseri umani in tutto e per tutto. Soprattutto in un aspetto: la durevolezza. Se i primi (i robot) hanno un potenziale di vita pressoché tendente all’infinito, i cyborg sono più “umani” e come noi hanno una data di scadenza, a volte più lunga e a volte più breve della nostra. Sono esseri superiori, ma muoiono come tutti. Cenere alla cenere, polvere alla polvere, ferraglia alla ferraglia. La letteratura e il cinema e il fumetto hanno sviscerato il tema della fusione uomo-macchina sotto tutti i punti di vista e ogni volta le prospettive cambiano.

È il 1968 e Philip K. Dick fa un regalo all’umanità scrivendo Do androids dream about electric sheeps, molti di voi se lo ricordano con un altro titolo, Blade Runner, film del 1982 di Ridley Scott con Harrison Ford e Rutger Hauer. Romanzo e film icona della fantascienza moderna, al suo interno il cyborg è più umano dell’umano stesso e ci porta a domandarsi costantemente cosa è veramente la natura umana.

La più che prolifica industria del fumetto giapponese ha prodotto fra gli anni sessanta e settanta svariati esempi di super eroi cyborg come ad esempio Cyborg 009 o Kyashan il ragazzo androide, datati rispettivamente 1964 e 1973; ma è con il genio assoluto di Leiji Matsumoto e il suo Galaxy Express 999 che si ha una storia più interessante. Il protagonista è un ragazzo umano che viaggia attraverso la galassia per arrivare in un fantomatico pianeta dove potrà mutare il suo corpo in una macchina immortale.

La trilogia di Star Wars racconta le vicende di una ribellione galattica, ma guardando più attentamente è la storia della redenzione di Darth Vader, ormai più macchina che uomo (come dice saggiamente Obi Uan Kenobi) e che prima di esalare l’ultimo respiro vuole guardare suo figlio Luke con i suoi veri occhi e non attraverso il casco. Non posso esimermi dal citare i film della serie Terminator ideata da James Cameron, fra i primi a farci avere paura di una possibile ribellione da parte delle macchine. La saga di Alien resta indimenticata anche per le magistrali interpretazioni di Ian Holm e Lance Henriksen nei rispettivi ruoli di Ash e Bishop.

Ma è forse nel 1987 con Robocop di Paul Verhoeven che si ha uno degli esempi più calzanti. In un futuro abbastanza vicino (ma speriamo anche di no), l’agente Alex Murphy viene trasferito nel distretto di polizia di Detroit e nella sua prima missione viene crivellato di proiettili e portato in fin di vita. La multinazionale OCP utilizza il suo corpo per creare Robocop, descrivibile secondo la tag line del film come: parte uomo, parte macchina, tutto poliziotto. Una sequenza molto interessante del film ci mostra la costruzione di Robocop attraverso gli occhi del corpo inerme di Alex Murphy, cioè in prima persona, facendoci supporre che il suo cervello sia ancora attivo e che stia registrando informazioni e memorie. Robocop è programmato per far rispettare la legge e seguire direttive, ma la sua parte umana puntualmente emerge e crea i primi contrasti fra la macchina e l’uomo. Sembra quasi che le due anime si rigettino a vicenda fino a quando non avviene la completa accettazione e si ultima la fusione delle componenti che formano il nuovo essere. E appunto nel finale quando gli viene chiesto il suo nome, risponde automaticamente “Murphy”.

Secondo Donna Haraway, autrice di Teoria del cyborg, il desiderio di migliorare ciò che ha determinato la natura sarebbe alle origini stesse della cultura umana. Siamo caratterizzati da un’innata voglia di distinguerci dal resto del creato e anche da quello che abbiamo creato. A volte a tal punto da unirci ai nostri prodotti. Questo scenario non è troppo lontano, del resto valvole cardiache meccaniche e pacemaker tengono in vita molte persone oggigiorno e sembra che la prossima necessità sia quella di filtrare il mondo attraverso i google glasses portandoci a un'ulteriore fusione con quello che è il prodotto definitivo dell’uomo: l’informazione che galleggia nel nulla, la rete. Anche qui il cinema ci aveva già dato qualche spunto con Johnny Mnemonic e Nirvana.

Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà, sarà un giorno sbagliato. L’upgrade e l’eterno sono due prospettive allettanti se penso alle possibilità future, ma credo di aver voglia di rimanere umano. Forse ancora per un po’.