La luna è brillante, la luna sale, sale nel cielo e il sole vuole farla sua sposa, ma, “non sarai mia rivale” le dice “sei donna, brillerai soltanto quando io riposo” [1]

L’invisibile corpo della Luna nera si trasmuta nella luminosa falce del primo quarto ed alla sua forma rimanda il numero 9 che alla Dea della notte è consacrato: è la rinascita che completa il ciclo. Saggezza, prudenza e circospezione vengono associate a questo numero considerato magico nelle più antiche culture, dall’Egitto, alla Grecia, dall’India fino alla Siberia.

Nove sono le Muse figlie della memoria, nove sono le pietre sacre.

Il 9 dichiara la fine e il culmine dell’unicità che ha in sé la propria completezza e prelude all’inizio di una sequenza di numeri che hanno bisogno di condividere con altre cifre la propria esistenza, quasi a simboleggiare il passaggio dalla solida perfezione della sacra singolarità alla fragile e umana condizione di dualità che prevede separazione e conflitto.

È un giorno fausto questo 9 del mese di Marzo, in prossimità del plenilunio, per rendere omaggio a noi tutte che siamo entrate nel tempo con un corpo di donna, noi che da secoli e secoli torniamo a far riemergere, dall’oscurità che ci insegue, la bellezza del nostro vólto illuminato.

È tempo di fioritura e noi abbiamo seminato meravigliosi giardini profumati di mille colori, abbiamo ricucito le ferite della Terra, abbiamo rattoppato la sua gonna. Nelle pentole di terracotta abbiamo mischiato acqua, mais e tabacco per placare gli spiriti.

Dal grande cuore dell’universo si sprigiona la potenza che rinnova ogni creatura e noi siamo pronte a ricevere la forza degli alberi, l’energia dei fiori, della pioggia e del sole, della Natura tutta.

Lo sguardo fine che vede con il cuore fa incontrare i nostri occhi pur nella lontananza e rassicura l’anima perché riconosce anche il dolore che non parla, che non si può dire, che alla solitudine offre ascolto silenzioso.

Omaggio alle donne incontrate chissà dove, chissà quando che sanno ritrovarsi come amiche d’un tempo felice.

Donne che date ascolto alla vita con la pazienza dei secoli, che custodite la fiducia che fa nascere il domani, che danzate sulle luci damascate dell’aurora e cantate nella voce del tuono che annuncia la tempesta, donne che proteggete la speranza nell’abbraccio del cielo stellato, che camminate con rispetto silenzioso sulla Terra, madre antica, e sapete parlare la lingua del cuore.

Donne che con lungo filo rammendate l’anima, che cucite vesti gioiose per far più dolce il dolore, che con infinita cura tessete pepli iridescenti da appoggiare sulle spalle per non svelare le vostre grandi ali misericordiose.

Donne portate dal respiro caldo della pioggia, donne dipinte con i colori dell’arcobaleno, donne sempre innamorate.

Donne che sanno aprire le ante di vecchi armadi, tra doloranti scricchiolii, e ritrovare maschere a lungo indossate per placare la mente provata da inaccettabili verità.

Donne che dipanano il gomitolo incantato della loro voce a creare mirabili armonie, che giungono fino al cuore del divino che, ammaliato da tanta bellezza, dona loro lo scrigno che custodisce la scarpina fatata per camminare fino alla casa dei sogni. Voce di preghiera radicata nella terra, aggrappata alle viscere e capace di volare.

Donne che come antiche orse attendono che il letargo dell’inverno si sciolga in un dolce tepore, che la vita ritorni a fiorire nella tiepida luce del mattino.

Donne cresciute nei palazzi senza porte, donne antiche come il mondo e giovani come fiore dischiuso a primavera, donne che amate i paesaggi dai tiepidi orizzonti.

Donne affacciate sui pensieri della notte, antiche querce che custodiscono la nostra memoria saldata come pelle alle loro radici, donne che nella calma silenziosa accolgono il suono di dolci nostalgie abbracciate alla Luna, donne impresse sulle tavolette incise di terra gialla, sui cocci segnati dal lungo cammino.

Donne velate, dagli occhi di rugiada, donne riemerse dagli abissi profondi del troppo sapere, donne che conoscono la compassione: senza di lei la sapienza, la saggezza e l’arte sono solo polvere.

Donne antiche come la Terra, forti come le maree, piante secolari che custodite il sapere nei mille solchi incisi sulla vostra corteccia, donne di infinita grazia, che riposate sul mio cuore come odorosi petali di intensa fragranza, ecco, ritorna il tempo del nostro sentirci, del nostro saperci, del nostro dire le parole antiche scavate nelle pietre del pane, ascoltate attorno al fuoco, annodate con sapienza sull’ordito della vita, pronunciate insieme come balsamo per le nostre anime.

Parole che ci accarezzano e arrivano puntuali e profumate come ad un appuntamento amoroso, parole che vanno dritte al cuore che partorisce lacrime di commozione per l’antica verità che esse custodiscono, verità dolente e preziosa.

Parole portatrici di indomite speranze, evocatrici di presenze, parole che si tuffano nelle acque profonde dei nostri sguardi e nuotano fino alle sorgenti della poesia.

Parole che odorano di rosa, che profumano di sacro, che raccontano il tempo dell’attesa a noi tanto caro, parole che sanno sorprenderci, parole che sono respiro del nostro corpo, del vento, del sangue che ci scorre dentro.

Parole per non dimenticare quanto amore sappiamo accogliere e quanto sappiamo donarne, quante esistenze abbiamo condiviso cercando di essere felici.

Parole per colei che sa quanto “radiosa era la vita quando si danzava nella casa delle danze”, quando daini e caprioli crescevano al riparo dai lupi nei sacri recinti, per lei che ha mischiato i frutti maturi del nespolo con la crema di granturco: le sue dita hanno arrotolato le piccole sfere di polenta nel piatto di coccio e hanno offerto cibo ospitale.

Impariamo a lasciare che riemergano le nostre impronte, andiamo a riconnetterci a quel femminile originario dal quale siamo state con ogni mezzo allontanate.

Ritroviamo la memoria di gesti, suoni, riti, abitudini e sentimenti depositati nel profondo del nostro spirito originario e torniamo ad appropriarcene con consapevolezza ed anche a far rivivere quei segni di immensa potenza che sono stati cancellati dalla storia del sacro e dalla storia dell’umanità.

Il destino segue vie misteriose: con gratitudine e meraviglia ascoltiamo la voce antenata che da secoli ha dimora dentro di noi, che risuona nelle infinite, minuscole pieghe che increspano la superficie del lago dorato nel quale si bagna la nostra anima prima di ricominciare ogni volta a camminare sulla Terra.

Torniamo a riconoscere il coraggio che uccide la paura, fermiamo la lama affilata che affonda nel cuore rosso come ocra rossa: la violenza non è necessità, riconosci la tua forza, infondi il dono della vita, reclama il rifugio per le tue figlie nella caverna tracciata con il bianco delle tue mani.

Ascolta il suono delle pietre sul granito: braccia distese a macinare il mais al ritmo del canto; pietra su pietra in mani di donna che canta macinando il mais. E son passati cinquemila anni. Nessun uomo si avvicini alla macina: è il sapere delle donne, la macina è il sapere della madre. [2]

Ascolta lo spirito delle indovine dalle bianche conchiglie che ti hanno preceduto sul sentiero, ascoltalo nelle pietre risonanti percosse dall’alba dei tempi, ascoltalo nell’acqua che impregna la Terra feconda, ascoltalo nel bisbigliare delle anziane veggenti che conoscono le canzoni segrete, ascoltalo nel vento che intona le betulle, ascoltalo nella voce del tamburo che attraversa l’aria odorosa di pini e racconta la vita incisa nella caverna di pietra, tatuata sulla pelle, impressa sull’argilla nella capanna tinta di rosso, ascoltalo e aiuta la canzone che racchiude tutto ciò che abbiamo veduto e ascoltato perché l’oblio non abbia il sopravvento e tutto sia raccontato negli anni a venire.

“Viene il vento a cancellare le orme dei nostri piedi” quando l’odore della pioggia annuncia il temporale. Il vento alza la polvere e ricopre le orme lasciate quando le rocce erano fango su cui la gente lasciava le orme, ma io resto qui con le braccia distese perché lo spirito dell’aria fa discendere su di me il glorioso nutrimento. Io resto qui circondata da una grande forza perché ho bevuto il liquore brillante dei frutti scavati dal coltello d’osso, staccati dal sacro albero che non può essere abbattuto.

La Natura che comprende la nostra intenzione possa accogliere con benevolenza questo rito della parola che rimanda ad un insieme di lingue africane parlate dal gruppo culturale dei Sotho, quelli che con termine generico vengono chiamati Bantù: un deposito di memoria ancestrale che si va perdendo e che merita di essere difeso.

A cura di Save the Words®

[1] Lyall Watson, L’uccello del fulmine, Frassinelli, 1984, p.167: “Quella è kgwedi, la luna, il cui nome significa qualcosa che è brillante, piacevole, tranquillizzante. Fu creata dall’albero della vita”.
[2] dinaleng “macina”, mme “madre”.