Non è in gioco la sopravvivenza dei materiali, ma quella dei loro significati.

(Lawrence Carroll)

Il Madre, museo d'arte contemporanea di Napoli, omaggia Lawrence Carrol artista statunitense di origine australiana, scomparso circa tre anni fa.

Presente nelle collezioni di importanti musei internazionali, ci si stupisce di come questa sia la prima antologica in Italia. La mostra, a cura di Gianfranco Maraniello, presenta un corpus di ben 80 opere allestite al secondo piano del museo, che ospita anche la mostra Rethinking nature.

“Lawrence Carroll ha un ruolo eminente nella storia dell’arte americana per avere mostrato orizzonti e aperture oltre l’impasse dei dogmatismi teorici che avevano sostenuto gli impianti di modernismo e postmodernismo fino alla metà degli anni Ottanta – dice il curatore Gianfranco Maraniello.

Un racconto poetico che si sviluppa attraverso le grandi tele, le installazioni, le sculture e in una serie di fotografie e disegni, esposte, fino ad ora, solo in Svizzera.

Negli anni Ottanta il giovane Carroll realizza a New York le prime opere rivelando una ricerca artistica che esula dal volersi incanalare in un movimento specifico e più incline a trovare un modus operandi sul fare pittura.

"Le sue opere dai colori sommessi, stratificati e dalle forme essenziali inglobano memorie del vissuto e tracce del reale, trasfigurandoli in un linguaggio rigoroso ed evocativo” - commentano la Presidente Angela Tecce e la Direttrice Kathryn Weir.

In mostra oltre trent’anni di ricerca con opere realizzate dal 1985 al 2019, allestite come piaceva a Carroll "come fosse un luogo. Un luogo in cui entrare, da occupare, dove scaricare qualcosa che stavi portando con te. Una sorta di corpo”. Per l’artista, infatti, i suoi lavori erano come dei corpi che abitavano gli spazi e che incontrando l’osservatore, ci entravano in contatto, fisicamente ed empaticamente, come uno specchio che ne riflette le imperfezioni.

Una dichiarazione d'amore alle cicatrici del tempo, un elogio e ciò che ritorna, ogni volta, come un meraviglioso ricordo.

Mentre le grandi tele invadono gli spazi del Museo, sono i dettagli a svelarne il cuore. Foglie, guanti, lampadine, scarpe, lettere, frasi impresse nel colore sfumato, tutto è parte di un racconto. L'artista ci porta nel suo mondo non solo con le sue opere in cui sembra di incontrare un autunno assorto, a tratti spezzato dalla solitudine più amabile, ma anche con dei pensieri che accompagnano le opere lungo il percorso.

Quello che continua a coinvolgermi è che le forme dei miei quadri cambiano continuamente, si modificano mi portano verso nuovi campi.

Closet, ad esempio, è un'opera-contenitore di memorie non trasfigurate nella pittura, ma "fisicamente" raccolte in un quadro che non disdegna la definizione di guardaroba. Al suo interno si trovano materiali eterogenei, collezionati e rivisitati, come una copia di un dipinto dell'amato Giorgio Morandi, le scarpe, regalategli, del grande artista Rauschenberg e altri oggetti che rimandano alla sua ricerca.

Nonostante nelle sue opere siano presenti temi e maniere della pittura contemporanea negli Stati Uniti, Carrol parte dalla progressiva cancellazione di immagini preesistenti, arrivando a stesure di colore bianco simili alla tela stessa. L’artista, in questo modo, si apre a un modo per osservare il potenziale infinito di dipingere, proponendo un’incessante interrogazione sulla realtà, sulla solitudine.

Incominciai a usare lampadine nelle mie opere. Una piccola luce da studio poteva essere collocata vicino a un mio quadro oppure messa a riposare sul pavimento sotto il dipinto. Un dipinto in scala ridotta che sembrava una piccola tenda, aperta alle due estremità con la luce posta nel mezzo. Mi piaceva il modo in cui il quadro mi appariva. Era sveglio e attivo. Dava forma alla sua stessa ombra, mentre in altri momenti sembrava immerso nell'oscurità. Stava dormendo in qualche modo e forse mi sognava.

Quasi in parallelo, come a voler aprire un sipario sul tempo, l'artista ci regala delle visioni catturate dal suo occhio interno, come una sorta di diario in fermo immagini in cui è possibile prevedere e intravedere, tra l'opacità e la trasparenza, quella stessa fragilità trasmessa alle opere realizzate. Fotografie che Carroll ha dichiarato "essere venute a lui" più che realizzate, sembrano haiku visivi, colti nel loro cristallizzarsi nell'inverno puro.