La luna calante era completamente sparita prima che quella nuova apparisse, il Ramadan era terminato.

Mi trovavo in Marocco, alle gole del Todra. Ero arrivata guadando con la Land Rover il fiume Dades. Stavo sorseggiando un tè alla menta in un locale, una grande tenda. Improvvisamente nell’aria si è diffuso la zaghroutah con una potenza che, ancora ora a distanza di anni, la sento nelle orecchie. Questo suono vocale, tra il canto e l’ululato, che viene praticata dalle donne in tutto il Medio Oriente e in vari Paesi del sub-continente africano, faceva presagire una festa.

Il canto ululato si avvicinava sempre più e tra gli spruzzi d’acqua è apparso un camion pick-up pieno di giovani donne che venivano accolte dai fidanzati ansiosi di sposarle, ora che il Ramadan era finito.

Dal bornus blu, il tipico mantello dell’Atlas, ho riconosciuto che erano ragazze appartenenti alla popolazione degli Imazighen, uomini liberi, meglio conosciuti come Berberi.

Sono stata spettatrice e nello stesso tempo invitata alle nozze collettive.

La preparazione della cerimonia è stata laboriosa e tutti erano alquanto presi: a predisporre il cibo, scegliere la musica, addobbare il locale e soprattutto a vestire e truccare le spose.

Alle spose sono stati truccati gli occhi, profondissimi e scuri, con il kohl e sono state pitturati, in faccia, sulle mani e sui piedi, motivi floreali fatti con l’hennà, come vuole la tradizione.

A una sposa dalla sua hijab è spuntato un ciuffo di capelli biondi. Anche la pelle del volto, quel poco che si poteva scorgere, era chiara. Caratteristiche che poco avevano a che fare con la popolazione berbera.

Incuriosita mi sono avvicinata alla ragazza che subito ha intuito la mia sorpresa e sorridendo mi ha detto: “Sì, sono italiana”. Non mi è bastato, ammetto sono curiosa, ho voluto saperne di più.

Le danze, la musica non ci hanno distratto e Selma (nome acquisito in Marocco) ha incominciato a raccontare.

Era nata a Sestri Levante, aveva trascorso l’infanzia a Genova e l’adolescenza a Milano, dove si era laureata in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali. Per completare uno studio sui Paesi arabi, era andata in Tunisia, dove si è trovata in piena Jasmine revolution che era esplosa, con tutta la sua drammaticità, agli sgoccioli del 2010.

Per Selma c’è stata anche un’esplosione di cuore: si è innamorata di un giovane marocchino di Zagorà dal sorriso accattivante. Ha pensato bene di seguirlo in Marocco; gli studi potevano ben proseguire in quel Paese! Gli studi non proseguirono poi tanto… ma l’amore sì. Tanto da arrivare, dopo un po’ di avanti e indietro dall’Italia, alle nozze.

La festa è continuata per due giorni e vi ho partecipato per tutto il tempo. La mia tenda non mi isolava dalla musica e dai canti e le gole del Todra, di per sé molto suggestive, vissute in quella atmosfera di festa erano ancora più spettacolari e mi è sembrato di far parte di uno scritto del marocchino Thara Ben Jullon e il racconto di Selma sprigionava la mia fantasia.

Ripresi il mio viaggio e lasciai Selma molto euforica e aperta alla nuova vita.

Alcuni anni erano passati, mi trovavo a pedalare sulle Colline Livornesi lungo la strada panoramica che conduce al Santuario di Montenero. Superata un’altra ciclista, alzando gli occhi ho incrociato quelli di una persona conosciuta e ho gridato: “Selma”. Con un sorriso mi ha risposto: “Non sono Selma, sono Francesca, Selma è rimasta in Marocco con tutti i suoi sogni”.

Non c’era bisogno di altre parole, ma la mia curiosità mi ha spinto a chiederle dove stesse andando. Ancora una volta il nostro destino si incrociava. Aveva saputo dell’esistenza, nel Santuario di Montenero di un ex voto di una ragazza rapita dai turchi e voleva andarlo a vedere. Le ho subito detto, ridendo dentro di me, che l’avrei accompagnata.

Montenero è considerato il più importante santuario nel territorio toscano per la consistenza del suo patrimonio, formato da un cospicuo numero di ex voto dipinti, gioielli e oggetti votivi in argento testimoni di una devozione per la Madonna sedimentatasi nel corso dei secoli.

L'immagine della Madonna di Montenero, che svetta sull’altare della chiesa del Santuario, secondo una leggenda è stata trasportata miracolosamente dall'Egeo, isola di Negroponte, sulla sponda del torrente Ardenza, non lontano dal luogo dove sarebbe stata fondata la città di Livorno.

Nel maggio del 1345 sarebbe apparsa a un vecchio pastore zoppo nel punto dove adesso è stata eretta la chiesa dell'Apparizione. Il pastore fu invitato a trasportarla sul colle, depositandola appena il suo peso gli fosse divenuto insopportabile. Il pastore, esaurito il suo compito, ricevette la grazia di poter camminare speditamente.

Entrate nel Santuario, siamo arrivate davanti all’ex voto, un corpetto e due babbucce di velluto riccamente ricamati con fili d’oro, indumenti tipici delle donne orientali. Sono conservati in una teca appesa alla parete di un luogo del Santuario destinato alle tante testimonianze di persone che hanno ricevuto la grazia da parte della Madonna di Montenero.

In silenzio ho lasciato che Francesca leggesse ad alta voce la didascalia dell’ex voto.

Verso il 1800, la giovinetta Ponsivinio, trovandosi lungo mare, presso Antignano, fu rapita dai turchi che la portarono a Costantinopoli per l’Harem del Sultano. Di fronte all’ignominia che le sovrastava, invocò fervidamente la Madonna di Montenero che non tardò ad ascoltarla. Un giorno si vide arrivare nei giardini dell’Harem il proprio fratello che con somma accortezza e non senza un aiuto speciale della Vergine, come attesta il voto, riuscì a ricondurla a Livorno.

Terminata la lettura ho detto a Francesca che la ragazza era la zia della mia bisnonna paterna, da parte di madre. Stupita e incuriosita voleva saperne di più. Le ho riferito quel che ricordavo dai racconti in famiglia e le poche notizie reperite dalle ricerche fatte.

Il padre era un armatore spagnolo e trasportava merce tra Cadice e Livorno. La ragazzina era solita andare ad aspettare l’arrivo del veliero, accompagnata da un’ancella, al molo del porto. Un giorno un gruppo di pirati, cosiddetti barbareschi o turchi, colpiti dalla sua bellezza, la rapiranno per destinarla all’harem del sultano di Costantinopoli.

Una volta arrivata fu portata al Topkapi, palazzo, costruito tra il 1460 e il 1478 come residenza principale di Maometto il Conquistatore di Costantinopoli, e richiusa nell’harem del palazzo.

Come ho appreso in una visita in quel luogo durante il mio viaggio in Turchia, le sue 400 stanze, con alti soffitti e muri elegantemente decorati da piastrelle colorate, ospitavano le donne del sultano, le schiave e i bambini.

Come è scritto nell’ex voto, la giovinetta sarebbe stata salvata dall’intervento della Madonna di Montenero, da lei invocata, e restituita al fratello che era andato a liberarla.

Secondo i racconti di mia nonna il sultano, a cui sarebbe stata destinata, morì e il successore ebbe compassione della giovane fanciulla, la liberò e la consegnò al fratello che nel frattempo aveva raggiunto Costantinopoli.

Alla vicenda della giovane, secondo una fonte si è ispirata, stravolta la componente melodrammatica, L'Italiana in Algeri, opera buffa di Gioacchino Rossini, rappresentata per la prima volta nel 1813.

La leggiadra Isabella, protagonista dell'opera, è di Livorno. Salpata da quella città, alla ricerca dell'amato Lindoro, è naufragata sulle coste algerine, dove è stata catturata e rinchiusa nell'harem del Bey di Algeri Mustafà-ibn-Ibrahim.

Questa attribuzione deriverebbe dal fatto che Angelo Anelli, librettista di Rossini, durante un suo soggiorno a Montenero vide l'ex voto e scrisse al Maestro raccontando della giovane "rapita dai turchi” che fu spunto dell’opera.

Secondo altri invece deriverebbe da un fatto di cronaca che vide coinvolta una signora milanese, Antonietta Frapolli, rapita nel 1805 e portata alla corte del Bey di Algeri.

Dopo un giro veloce per osservare gli altri ex voto con Francesca ci siamo salutate, sicure che ci sarebbero stati altri nostri incontri non programmati.