Pur consapevoli che la guerra è intrecciata con la storia umana sin dai suoi albori, ci ritroviamo oggi - ancora una volta - ad un passaggio della Storia in cui la guerra si fa percettivamente più vicina, quasi che se ne possa sentire l’alito caldo ed acre. Come europei, abbiamo un passato intriso di sangue, tra guerre intestine e coloniali, ma dopo gli orrori delle due guerre mondiali (che soprattutto in Europa, e per l’Europa, si sono combattute), abbiamo provato a rimuovere l’idea della guerra dall’orizzonte politico, sino ad inscriverne il rifiuto nella Carta fondamentale, come ha fatto l’Italia. Ma, come purtroppo spesso avviene, un approccio ‘ideale’ finisce col rivelarsi troppo in contraddizione con la realtà, in questo caso verrebbe da dire con la natura delle cose.

La questione fondamentale, in fondo, è che se la guerra è così profondamente legata alla nostra specie, se nonostante le sue conseguenze (sempre più terribili) non si riesce a bandirla, allora deve esserci una ragione - diciamo così - ‘oggettiva’. In effetti, potremmo dire che, contrariamente a quanto pensava Jean-Jacques Rousseau, l’uomo non è “un buon selvaggio”, un essere fondamentalmente buono ma ‘corrotto’ dalla società. Che del resto, è a sua volta una creazione umana... A ben vedere, la nostra è soltanto una specie più fortunata di altre, che grazie ad una incredibile serie di avvenimenti (concatenati tra loro), relativi alla storia del pianeta e delle specie viventi che lo abitano, ha avuto la possibilità di ‘evolvere’ sino al ruolo di specie dominante, capace - tra le altre cose - di riflettere su se stessa. L’idea di ‘buono’, così come del suo opposto, ‘cattivo’, altro non è infatti che un prodotto della mente umana, un ‘giudizio’, che però semplicemente non esiste in natura.

L’uomo, dunque, ‘fa’ la guerra, ed al contempo riflette su di essa, la ‘giudica’ secondo una serie di valori (religiosi, morali, etici, politici...), che a loro volta possono mutare nel tempo ed in base alle culture nelle quali si formano. A costo di dire cose inudibili, dovremmo forse porci una domanda cruciale: la guerra è ‘soltanto’ orribile? Non si pone qui la questione se sia (se possa essere) ‘giusta’, o semplicemente necessaria. Saremmo qui nel campo di una valutazione strumentale, se abbia o meno - sia pure occasionalmente - una sua propria utilità. O, per l’altro verso, se possa avere una giustificazione superiore, che ne trascenda il mero vantaggio; e sappiamo, a tal riguardo, che a ciò l’uomo si è risposto sì innumerevoli volte, dalle crociate al jihad.

La domanda più radicale, però, va appunto ancora più al cuore del problema. La guerra può essere (anche) ‘bella’? E non si pone qui, ovviamente, una questione estetica, ma assai più profonda, che interroga l’animo umano. Può, cioè, la guerra essere una sfera emotiva (anche) positiva, di una potenza tale da renderne superabile l’orrore? Detta ancor più brutalmente, può in essa albergare un’emozione paragonabile a quella del suo opposto, l’amore? La questione è così forte che non si intende azzardare qui una risposta, ritenendo già abbastanza audace - quanto necessario - porre la domanda. Oltre quarant’anni fa, lo storico Franco Cardini scrisse un libro importante, “Quell’antica festa crudele”, che già nel titolo (non a caso ripreso per questo articolo) teneva insieme due termini apparentemente opposti, quasi un ossimoro: “festa” e “crudele”.

Comprensibilmente, sulla guerra c’è una sterminata produzione libresca, e tra questa una buona parte (anche se meno valorizzata) è la memorialistica, che appunto potrebbe aiutare a cercare delle risposte. Anche se difficilmente, trattandosi appunto di memorie, scritte a distanza dall’esperienza vissuta, vi si può trovare traccia così viva della ‘festa’, prevalendo giustamente il dolore della ‘crudeltà’. Pure - penso ad esempio ad Ernst Junger ed al suo “Tempeste d’acciaio” - a volte è possibile intravedere qualche barlume del ‘non-orribile’ di quell’esperienza. L’importanza dell’interrogarsi su questo, comunque, non è tanto nel trovare una risposta, ma già nel porsi la domanda. Perché così facendo apriamo uno spiraglio, a mio avviso assolutamente importante (ed oggi più che mai), sulla natura umana della guerra, che è assai più che una ‘attività’ praticata dall’uomo, ma ha a che vedere con la sua natura profonda. La guerra, proprio come l’amore, è profondamente umana.

Al tempo stesso, come per ogni altra attività, anche la guerra è stata progressivamente trasformata dall’evoluzione tecnologica, che l’ha resa via via sempre meno ‘umana’. La soggettività individuale vi ha progressivamente perso importanza, e soprattutto in epoca moderna, quando la dimensione tecnica della guerra è divenuta non solo predominante, ma ha finito col ‘dare forma’ alla guerra nella sua interezza; la guerra della civiltà industriale è a sua volta una forma espansa del lavoro di fabbrica, richiede le medesime competenze di base, e la sua catena di comando ne riproduce le esigenze di ‘produttività’. E così come la fabbrica diventa il luogo dell’alienazione del/nel lavoro (che solo il conflitto di classe può in parte rovesciare in positivo), così il reggimento diventa lo spazio di compressione dell’esperienza bellica del singolo.

Per comprendere appieno la portata di questa ‘espropriazione’ della dimensione personale nel combattimento, l’unica nella quale è appunto possibile cercare ‘altro’ oltre l’orrore, illuminante può risultare la lettura di un altro testo fondamentale, “Il volto della battaglia”, di John Keegan. La sua analisi e descrizione dell’esperienza psico-fisica - e quindi emotiva - di combattimento ad Azincourt (1415), può aiutare a comprendere assai meglio di qualsiasi altra dissertazione come la tecnologia moderna (non solo le armi ed i mezzi, ma la stessa organizzazione della battaglia e dei combattenti) incida radicalmente sulla percezione soggettiva.

Questa evoluzione tecnologica, che è oggi giunta a livelli elevatissimi, sta paradossalmente però muovendosi verso una sorta di divaricazione dell’esperienza sul campo di battaglia. Per un verso, infatti, produce una crescente ‘distanza’ tra l’arma e il suo operatore (quand’anche ve ne sia uno...), che può persino collocarsi a migliaia di chilometri dal luogo in cui si svolge il combattimento, e che pertanto determina non soltanto una distanza fisica (quindi una dilatazione dello spazio), ma anche e soprattutto una distanza psichica ed emotiva. Per un altro, accorcia le distanze, riportando effettivamente alla dimensione del corpo-a-corpo. Il drone che lancia un missile sul bersaglio, manovrato da remoto, ed il combattente palestinese che colpisce un carro Merkava da poche decine di metri, sono entrambe volti della guerra contemporanea, ma sul piano esperienziale vi è una differenza abissale.

E già si affaccia una nuova dimensione, ancor più extra-umana, del combattimento, determinata dall’uso dell’intelligenza artificiale. Forse nella sua prima applicazione effettiva, in un ambito reale di combattimento, è ora utilizzata dalle forze armate israeliane nella loro operazione su Gaza. Un software AI, denominato ‘Vangelo’ (sic!), si incarica infatti di elaborare tutte le informazioni di cui dispongono i servizi segreti e le forze sul campo, producendo continuamente una lista di ‘obiettivi’ che vengono poi colpiti. Un salto di qualità nella dimensione ‘meccanica’ della guerra, che - altro paradosso - si affaccia in un conflitto spaventosamente asimmetrico, in cui un esercito moderno (con tutta la sua potenza tecnologica) investe massicciamente un’area ad altissima densità abitativa, in cui operano diverse formazioni combattenti con armamento quasi artigianale.

Questa situazione, complessivamente intesa, sta infatti riflettendosi sul modo in cui i soldati sul campo vivono l’esperienza del combattimento; a parte il portato derivante da una ideologia suprematista e messianica, la duplice disumanizzazione della guerra produce - come documentato dalla stessa stampa israeliana - o un trauma regressivo (shock da combattimento, panico, rifiuto) o uno aggressivo (crudeltà, perdita dei freni inibitori morali). Quindi, in un certo senso, possiamo dire che quanto più la guerra si allontana dalla (sua) dimensione umana, tanto più amplifica la sua parte orribile - e ciò vale sia per le manifestazioni esteriori, visibili, che per la percezione interiore, intima.

In ogni caso, e tanto più poiché sembra che ci stiamo incamminando su una via che vede estendersi ed intensificarsi le occasioni di conflitto, forse dovremmo provare a recuperare la dimensione umana della guerra, che essenzialmente significa accettarla come parte della nostra natura. Un'accettazione naturalmente non meramente passiva, ma che al contrario, proprio nella consapevolezza che essa è in noi, cerchi di temperarla, di contenerne il terribile. Abbandonarsi al suo vortice, così come illudersi di poterla rifiutare come estranea, ci impedirà comunque di fare i conti con questo nostro lato oscuro.