Vediamo una scena, un panorama, una persona che ci sta simpatica e i nostri pensieri cominciano a rincorrersi tra loro, procedono a balzi, improvvisano capriole inattese, si divertono a giocare saltellando tra una sinapsi e l’altra in quella camera delle meraviglie che chiamiamo cervello.

Lì, nella tiepida custodia che portiamo sulla testa, la fantasia è imperatrice e maestra. Sì, la fantasia, quella che ci srotola nuove scene, nuovi panorami, nuova luce negli occhi di quella persona che ci ispira così tanta simpatia.

Con la fantasia possiamo sentirci lì anziché qui, percepire la pelle ruvida della paura o carezzare i velli di seta di gioie emergenti. La fantasia non ha limiti, non si cura della realtà, sorprende ovvero prende dall’alto le persone e sorvolando i cieli le porta negli altrove magici che solo l’immaginazione può tratteggiare.

La fantasia disvela l’inaudito

La fantasia non saprebbe inventare tante diverse contraddizioni quante ce ne sono naturalmente nel cuore di ogni uomo.

(François de La Rochefoucauld)

Disvela ciò che forse non è, tiene in mano le chiavi per il regno della possibilità, allarga gli orizzonti, dischiude gli espedienti narrativi per consentire lo srotolarsi delle storie. La fantasia moltiplica, non divide, aggiunge, non sottrae: è agente lievitante nell’impasto di ogni esistenza. Con la fantasia, con i voli irrazionali della mente, una parola sussurrata diventa carne, la carne si trasforma in sogno, il sogno assume i contorni della prospettiva, la prospettiva si tramuta in desiderio e così via, di passaggio in passaggio, a volte con salti minimi a volte con balzi in grado di superare dirupi.

La parola italiana deriva dal latino phantăsĭa, a sua volta calco dal greco phantasía, sostantivo che ti regala qualche opportunità per connettere e connetterti al mondo incantato popolato dai lemmi. Nella lingua di Omero, fantasia significava ‘ciò che è mostrato’, ‘quello che viene indicato’, ‘un’apparizione che si può vedere’, ‘uno spettacolo’. La fantasia è quindi altro da sé, rimane sulla scena, necessita di occhi per poterla scrutare e di spettatori e spettatrici interessati a conoscere il dipanarsi del racconto.

Prima che essere immaginazione, la fantasia è quindi ‘apparizione’, apparizione inattesa sul palcoscenico della tua vita.

Il verbo greco di cui è figlia la fantasia è phantázein che alla forma attiva significa ‘mostrare’, ‘far vedere’, ‘indicare’ ma che alla forma passiva e media assume il significato di ‘apparire’, ‘mostrarsi’, ‘comparire’. Ecco allora la connessione per te: la fantasia come apparizione, visione, immagine.

La fantasia è come l’alba, porta luce, lascia prima immaginare e poi vedere, si accompagna ai primi raggi che allontanano la notte, precorre la realtà, la scolpisce, la trasforma e quindi le cambia la forma in un incessante lavorio di modellazione e rimodellazione come quello delle onde del mare sulla battigia.

Anche la parola fantasma ha i nonni in quell’ambiente: il greco phántasma era ‘spettro’, ‘apparizione’, ‘visione’, derivato sempre dal verbo phantázomai ‘immaginare’, ‘figurarsi’. La fantasia, infatti, non è solo melodia e luce, come nel film musicale di Walt Disney, ma può nascondere ombre, spiriti che vagano senza sosta nel buio, soffi che impauriscono coperti da capo a piedi da lenzuoli bianchi.

Fantasia, un luogo dentro il quale piove

La fantasia è la figlia diletta della libertà.

(Leo Longanesi)

“Poi piovve dentro a l’alta fantasia”, scrive Dante Alighieri nel canto XVII del Purgatorio, al verso 25. In quella porzione del canto vengono puniti gli iracondi, coloro che in vita erano stati trascinati dal fumo dell’ira e che ora per contrappasso si ritrovano immersi in un fumo denso e nero.

Del resto, non è proprio l’ira quel fumo interiore che acceca e soffoca la ragione, impedendo di distin¬guere, discernere e capire? Non è proprio la collera quel sentimento che avvolge tutto in una cappa di caligine? Non è il furore che impedisce trasparenza e chiarezza di pensiero?

Dante sostiene che dentro la fantasia più profonda (“alta”) possono apparire (“piovere dentro”) delle immagini.

Riprendendo il verso dantesco, Italo Calvino, uno dei più amati scrittori italiani del Novecento, in una delle lezioni americane tenuta sul tema della visibilità, elabora pensieri sapidi sulla fantasia.

La fantasia diventa quindi il luogo dentro il quale può piovere. E noi, di fronte a questa affermazione così sconvolgente e attrattiva, siamo in preda alle vertigini, traballiamo, ci ritroviamo senza alcun punto di riferimento, lasciamo la riva, allontaniamo la barca dell’esistenza dal porto sicuro e ci lasciamo scarrocciare “per l’alto mare aperto”, nell’incertezza assoluta sul domani, respirando piano, lasciandoci dilavare il volto dalla pioggia. Quella pioggia che assume il colore della tua fantasia.

Allenare la virtù dell’immaginazione

La ragione non sovrasta mai l’immaginazione, mentre l’immaginazione spodesta frequentemente la ragione.

(Blaise Pascal)

La capacità di immaginare è una virtù potente, che va allenata ogni giorno, con disciplina, rigore e leggerezza. Immaginare vuol dire ‘raffigurare nella mente’, usare i colori più vivaci per rappresentare i pensieri, prefigurare concetti che possono apparire sia reali sia verosimili sia irreali. Sta a noi modulare il desiderio di immaginazione della nostra mente, avvicinando o allontanando la realtà alla fantasia ma sempre nella consapevolezza che tra l’immaginazione e la realtà esiste uno scarto, uno iato, un vuoto quanto meno temporale. Immaginare è infatti anche vedere nel sogno e nel delirio, quando farnetichiamo, quando vaneggiamo davvero, quando annulliamo la ragione dalla nostra vita.

È ancora una volta Dante a darci una definizione dell’immaginazione, in due terzine del Purgatorio (canto XVII, 13-18):

O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
perché dintorno suon in mille tube,
chi move te, se ‘l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa
per sé o per voler che giù lo scorge.

Ed è ancora una volta Italo Calvino che ci aiuta nella comprensione di quei versi aspri e strani scritti all’alba del Trecento dal poeta esiliato, servendoci queste parole di parafrasi: “O immaginazione, che hai il potere di importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo, da dove provengono i messaggi visivi che tu ricevi, quando essi non sono formati da sensazioni depositate nella memoria? “Moveti lume che nel ciel s’informa”: secondo Dante – e secondo San Tommaso d’Aquino – c’è una specie di sorgente luminosa che sta in cielo e trasmette delle immagini ideali, formate o secondo la logica intrinseca del mondo immaginario (“per sé”) o secondo il volere di Dio (“o per voler che giù lo scorge”)”.

Così Italo Calvino. Così noi, abbacinati di letizia, nel leggere l’interprete.

Il sostantivo immagine è un prestito dal latino imāgo –ĭnis, che voleva dire ‘effigie’, ‘ritratto’ e di qui ‘apparenza’, ‘simulacro’. Secondo L’etimologico, il dizionario curato da Alberto Nocentini, il latino imāgo è un sostantivo derivato da un verbo non attestato, di cui abbiamo il frequentativo imĭtāri che vuol dire ‘contraffare’, ‘simulare’; ‘essere simile’ da cui deriva a sua volta il verbo imitare e che si confronta con aemŭlus ‘emulo’. Per immaginare sempre di più possiamo imitare altre situazioni, lasciare che la mente vaghi senza ancore, scarrocciare privi di una meta lasciandoci portare dalla corrente della vita.

Inventare, quindi ammonticchiare i pensieri

Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa.

(Albert Einstein)

Chi si lascia abbracciare dalla fantasia e assapora la dolcezza del contatto fisico con lei possiede una mente creativa. Gli artisti sono fantasisti. I poeti sono fantasisti. Gli inventori sono fantasisti. Gli inventori trovano nei vincoli i detonatori della loro creatività, rinvengono nelle restrizioni le micce che innescano i sommovimenti. Senza il vincolo dell’endecasillabo e della rima, la Commedia non avrebbe potuto essere inventata. La parola invenzione è sorella di inventario.

Gli autori latini Cicerone e Quintiliano, rifacendosi al pensiero del filosofo greco Aristotele, avevano individuato cinque parti della retorica: l’inventio, la dispositio, l’elocutio, la memoria, e l’actio. Ebbene quell’inventio con cui parti per preparare e formulare un’orazione, uno speech di Ted o una presentazione ufficiale vuol dire cominciare a raccogliere le idee, ammonticchiare i pensieri sopra un piano, rastrellare le suggestioni per radunarle insieme, un po’ alla rinfusa, ammassare i concetti senza preoccuparti di come verranno disposti.

Da quell’inventio latina si è generata in italiano l’invenzione. Che è in primo luogo la capacità di trovare, di scovare, di scoprire. Ai tempi dell’antica Roma, invenīre significava ‘trovare’, ‘scoprire’, ‘imbattersi’. Il rinvenimento, che di quell’invenīre è italico figlio, è sinonimo di ritrovamento. L’inventario, cioè l’elenco, il catalogo, il registro degli elementi di un insieme, è il frutto di un ritrovamento: è il repertorio delle parti, per crearlo non serve inventiva. O forse sì.

L’ingegno che genera

Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità.

(Aristotele)

Anticamente ingegno si poteva scrivere ingénio, ingégnio, ingiégno, ingiégnio, incigno, engégno. Forme diverse per uno stesso concetto: la facoltà dello spirito di intuire, penetrare e giudicare le cose con prontezza e perspicacia. Le persone ingegnose da un’esperienza costruiscono una teoria, da due parole generano una storia, con qualche pezzo meccanico costruiscono una macchina.

Avere ingegno significa possedere la capacità di intendere o di creare, vuol dire essere intelligenti, lascia intendere il concetto di “testa ben fatta”, come la chiama Edgar Morin.

In latino ingenĭum aveva un significato leggermente diverso dall’italiano ingegno: ai tempi di Cesare voleva dire ‘carattere’, ‘indole’, oltre che ‘capacità’, ‘intelligenza’ e ‘acume’. Il sostantivo ingenĭum deriva dal verbo gĕnĕre, che voleva dire generare. Tra i significati della parola ingenĭum c’era anche l’idea concreta della ‘trovata ingegnosa’: da quel concetto si sono sviluppati in inglese il termine engine ‘macchina’, ‘meccanismo’, motore’ da cui il derivato engineer (in francese ingénieur) ‘costruttore di macchine da guerra’, diffuso nelle lingue europee compreso l’italiano nella forma ingegnere.

Gli ingegneri, etimologicamente parlando, hanno ingegno.