Ci sono delle piante che aiutano a traghettare felicemente da una stagione all’altra, che alleviano un passaggio difficile quello dei tardivi caldi settembrini, che ormai toccano punte estreme di temperatura, ai primi freddi che il nostro fisico comunque deve compensare e accettare sia fisicamente sia mentalmente.

Il passaggio delle stagioni, sempre più repentino in questi ultimi anni, come provoca effetti nelle piante con l’improvvisa caduta di foglie e frutti, anche in noi humana crea spesso scompensi e riassestamenti che si manifestano con calo di energie, stanchezza, a volte irascibilità e malumori. Questo è naturale ma ci sono rimedi che possiamo cogliere dalla natura stessa che ci provoca uno sconquasso vero e proprio del corpo e della mente.

Non dimentichiamoci che la perdita di tante tradizioni legate al calendario ha contribuito ad appiattire e rendere un po’ più uguali tutti i giorni dell’anno, se si esclude la vera e propria mania di controllare il tempo: come sarà, quanto pioverà, se rovinerà un fine settimana programmato per l’unica vacanza disponibile nei prossimi mesi, magari prenotata programmata e “meritata” (come si dice oggi) votata soprattutto al fare in termini di lavoro e soprattutto guadagno.

Come scrive bene lo storico delle religioni e delle tradizioni popolari Alfredo Cattabiani (1937-2003), nel suo libro Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno: il kalendarium era in origine il libro dei crediti dei banchieri e dei prestatori di denaro da kalendae, il primo di ogni mese in cui si dovevano pagare gli interessi. “Con l’inizio del nuovo millennio molte tradizioni, ancora vive fino a cento anni fa benché presentassero già segni di disfacimento, sembrano dissolversi nella ormai predominante concezione del tempo lineare e strumentale dove le feste stanno perdendo la funzione di ponti fra la dimensione atemporale e temporale e sono ridotte, tranne in ambienti limitati, a comportamenti e talvolta tetramente festosi o a semplici occasioni di vacanza e di compere affannose”1.

Quest’anno in particolare ho avuto affezione e attenzione verso un albero quasi centenario che tenta di entrare dalla mia finestra di casa, prima con i suoi germogli verde acido in primavera e poi regalando variopinte, quasi psichedeliche, visioni autunnali che sollevano dalle percezioni del passaggio del tempo e dall’arrivo del freddo e della neve. Vi racconto quindi una breve storia dell’albero tutto esotico e pregevole che arriva dall’Oriente non molti secoli fa in Europa e in Italia: Diospyros kaki L. f., oggi comunemente detto cachi o loto. In Francia è Plaqueminier kaki mentre in Inghilterra Chinese persimmon, in Spagna Placa minera.

Questo gruppo di piante del genere Diospyros originarie dell’Asia, a seconda delle specie tra Turchia, Cina, Taiwan e Vietnam, è arrivato in epoche diverse in Europa. Il primo è stato il Diospyros lotus L., pianta molto simile al D. kaki, ma con foglie più piccole (5-13 cm), i fiori più piccoli bianchi tinti d’arancio, allo stesso modo i frutti di soli 1-2 cm gialli e poi nerastri a maturazione, se ne ha testimonianza anche grazie alla studiosa Andrea Ubrizy Savoia quando riferisce sulla storia dell’Orto botanico di Padova: tra “le specie esotiche, nel 1571, crescevano piante dell’Oriente (Asia Minore, Cipro, Egitto) come il fico d’Egitto e il Diospyros lotus di provenienza del Levante.”2

Federico Maniero autore della Cronologia della Flora esotica italiana, data l’introduzione al 1550 per il D. lotus e il 1803 per il D. kaki, entrambi appartenenti alla famiglia delle Ebenaceae. Invece il D. virginiana L. è invece originario dell'America Centrale e Orientale. Come il D. lotus ha frutti mangiabili, ma piccoli e di poco pregio; questi ultimi infatti si coltivano piuttosto come piante ornamentali e per servire da portainnesto del D. kaki.

Queste specie devono il loro nome a due termini di origine diversa Diospyros dal greco Δίος e πνρός "cibo di Giove”, e kaki dall’inglese khaki, che è dall’indostano khākī, derivazione del persiano khāk “polvere”, da cui anche il colore per indicare la vicinanza alla sabbia del deserto. La sua caratteristica è quella di avere frutti dal carattere estivo, una bacca di 5-8 cm di diametro di un arancio carico, succosi, con polpa viscida e a tratti trasparente, ma che si producono in un’epoca invernale, con varietà che maturano sulla pianta altre che dopo la conservazione, in un luogo asciutto e vicino a delle mele, terminano il loro ciclo per diventare eduli.

La pianta che è molto longeva e raggiunge anche dimensioni ragguardevoli se non viene potata, è un albero speciale per il portamento slanciato, la chioma fitta di foglie lucide e verdi scure capace di fare un’ombra importante in estate che all’inizio di ottobre assumono delle colorazioni diverse e intense, dall’arancio al rosso fuoco, al giallo e al ruggine, riempiendo la sua proiezione della chioma di un tappeto variopinto insuperabile da qualsiasi altro albero spogliante. In più non ha bisogno di cure né di concimazioni di alcun genere. La bellezza è che se i suoi fiori sono pressoché insignificanti, i frutti rimangono anche dopo la caduta delle foglie a costituire un esemplare vegetale estremamente significativo dal punto di vista estetico; una foto significativa è quella riportata nel volume L’Orto botanico di Padova in quattro stagioni. Inverno (Nicla Ed. 2021), in cui nell’Orto concluso svetta carica di frutti perfettamente intatti contrastando sull’albero spoglio sotto la neve!

Pur essendo una specie tipica degli ambienti temperato-caldi può adattarsi a differenti climi e arriva a sopportare fino -15°C, ma teme le gelate tardive. È buona cosa mettere il kaki in una zona del giardino in cui fa bella mostra di sé sul lato a sud, cosicché in estate fa ombra ed in inverno fa filtrare la luce, ma ancora meglio se messo a ovest al riparo dei venti del nord (deboli i rametti pieni di frutti) ma in modo tale che il sole al tramonto incroci tutti i suoi rami e le foglie colorate, dipingendole ancora di più di toni caldi autunnali.

Non posso lasciarvi senza ricordare la peculiarità di questo albero il cui legno è anche pregiato per uso da opera; soprattutto con la specie Diospyros ebenum J.Koenig ex Retz., originario dell’India, Sri Lanka e Isole Andaman e Nicobar, il famoso ebano nero, duro, di grana finissima, suscettibile di perfetta lucidatura. Il Diospyros kaki nella tradizione orientale è detto albero dalle sette virtù, ce lo ricorda ancora Cattabiani quando scrive Florario nel capitolo degli alberi simbolici, l’autore definisce il frutto del kaki “miracolosa apparizione”. In Cina e in Giappone si ricordano per questo albero virtuoso: longevità, grande ombra che produce, mancanza di nidi tra i suoi rami, assenza di tarli nel legno, le sue foglie indurite dal ghiaccio possono diventare giochi divertenti, e gli ultimi due pregi, le foglie danno buon combustibile per accendere il fuoco e diventano ottimo concime. Si dovrebbe aggiungere anche una virtù fondamentale, quella del suo valore nutrizionale e terapeutico in casi di astenia e ritenzione idrica.

È un frutto ricco di potassio, calcio e fosforo. Ed è la bacca autunnale più ricca di Betacarotene, un pigmento vegetale precursore della vitamina A o retinolo, importantissima per pelle, mucose e in particolare per una buona visione. La retina si nutre di questi pigmenti per ripararsi dai danni dovuti alla luce e all’invecchiamento delle cellule, cosicché il carotene previene tutte le malattie degenerative degli occhi ed è fondamentale per chi non vede bene. Non manca di vitamina C e tannini che hanno attività terapeutiche importanti: astringente, antidiarroica, antinfiammatoria e antibatterica.

Per curare fegato e vista oltre che ritenzione idrica la cura è semplice, gustare un frutto al giorno alla mattina per tutto il periodo che si trova sugli alberi. Un uso ancora poco diffuso è quello del kaki essiccato, che invece sarebbe un modo pratico e ideale per averlo per più mesi l’anno.

La tradizione viene dal Giappone dove è una vera e propria arte, in quanto i frutti dopo la raccolta ancora immaturi vengono privati della buccia, appesi al picciolo e mantenuti in un ambiente areato caldo affinché diventino secchi, poi ancora una lavorazione naturale li riduce a veri e propri dolci da gustare durante i momenti in cui si ha bisogno di zuccheri semplici, di cui il kaki è ricco, e avere un effetto energetico rapido ed efficace.

La Fondazione Slow Food in un articolo dell’Arca del gusto fa un’approfondita descrizione di questa antica pratica, anzi arte giapponese, nel villaggio di Hachiyamachi, che dà il nome alla varietà di kaki, vicino alla città di Minokamo nella prefettura di Gifu. Il nome dojou-Hachiyagaki, significa anche ‘cachi offerto in onore della persona nobile’ in quanto era tradizione antica che venisse offerto in dono alla corte imperiale intorno alla metà dell’epoca Heian perché dolcissimo e prelibato! Come resistere all’impianto nel nostro giardino, proprio adesso che è tempo ideale, di una pianta di kaki?

Note

1 Alfredo Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, A. Mondadori Ed., Milamo 2003, pag.5.
2 Ubrizy Savoia A., L’Orto di Padova all’epoca del Guilandino, in Minelli A. (a cura di) L’Orto botanico di Padova 1545-1995, Università degli Studi di Padova, Marsilio, 1995.