Un orizzonte animato da una corrente quasi impercettibile; un campo di xerofile disidratate; un gruppo di gerridi nervosi; una larva che si dimena per la propria sorte. Cinque riprese a camera fissa mostrano altrettanti soggetti e la loro interazione con la materia liquida. I video, riprodotti su monitor e smartphone pieghevoli, mostrano delle inquadrature macro nelle quali dei particolari vengono decontestualizzati ed espansi fino a raggiungere un’astrazione innaturale.

Questi loop si perdono in uno spazio tempo indefinito, invitando alla contemplazione di forme organiche accomunate dalla loro relazione con il manto dell’acqua.

Questa tensione superficiale è uno dei temi di cerniera della mostra di Marina Cavadini. Il titolo della personale, Eat Me, racchiude in questo invito ambiguo uno stato di trepidazione sensuale, spingendoci a ripensare la materia dalla prospettiva dell’intimità fisica. Manifestando il suo desiderio di essere divorata, la mostra ci esorta a recuperare la visceralità del rapporto con le immagini; snodandosi attraverso una serie di anticamere, ci attira verso il proprio centro caldo.

I sei spazi della galleria ospitano una produzione molto eterogenea a livello formale, eppure parificata nel presentarsi come un continuum che spezza l’abituale frontalità d’interazione con la materia. La foto di un’ostrica dalla posa plastica ci accoglie nel primo vano. Un’incisione su plexiglass, dove lucido e opaco rivelano un altro dettaglio metafisico, ci aspetta nel secondo. E ancora una serie di ceramiche smaltate, contemporaneamente sensuali e repellenti. Delle porzioni di pelle metallica che ribolle dall’interno, richiamando tanto lo specchio degli schermi presenti in galleria, quanto quello dei guanti futuristici che le attiveranno. La luce rimbalza così tra una superficie brillante e l’altra, tingendosi gradualmente di rosso mentre ci avviciniamo al nucleo: una linea continua forma la parola wet, alludendo a secrezioni corporee sotto forma di un neon canicolare, mentre frequenze breakcore ci fondono all’ambiente circostante.

Elemento cardine nella pratica dell’artista, il piacere diventa qui uno strumento per ritrovare quella vicinanza sensoriale che la digitalizzazione dell’esperienza quotidiana intorpidisce. Genera immagini e suoni per spingere al contatto e alla concentrazione, al guardare da vicino fino al punto di voler toccare senza permesso. Ci attira verso la fonte per poi concedere l’abbandono, falene sedotte dalla luce.

(Testo di Zoë De Luca)