La primavera che sembrava essere stata alle porte aveva rinviato il suo ingresso. C’era sole e vento freddo.

I suoi occhi si erano fatti piccoli e mi aveva sorriso. Da tempo non lo vedevo sorridere. Me lo ricordavo guardare la partita sul divano in attesa di un gol. Andava in giro canticchiando contento. Ora eravamo spenti. Era uno scheletro con piedi gonfi. Indossava grossi calzini di lana color panna pieni di pelucchi e il solito pigiama azzurro dal quale si vedevano ossa, riempito per anni e nel giro di pochi mesi afflosciato, mongolfiera senza vento, pallido, calvo. Dagli zigomi spigolosi gemiti di assopito. E noi, vivevamo aspettando giornate amare, pronte a versare lacrime che avevamo lasciato sospese a fatica. Lei restava, lui glielo concedeva, lei non si negava. Avevo voglia di primavera e di sentire che stavamo tutti bene.

Dopo poco sarei andata al lavoro. Minacciata dal freddo e dal buio della cumana grigia, umida, sporca, cupa, mai in orario. Avrei preso la discesa dalla fermata allo studio. Quattro passi, freddo a parte, fatti con piacere. Forse mi sarei voltata ancora una volta a guardare se a una finestra c’era qualcuno, o non mi sarei voltata affatto, avrei continuato senza indagare, su chi in fondo non mi interessava più. Avrei visto il portiere già in lontananza e avremmo scambiato chiacchiere in attesa dell’ascensore. Mi sarei specchiata, pensando che stavo invecchiando, che la vita era proprio corta e che quel giorno avrei volentieri fatto qualcosa di grande ma, nel frattempo l’ascensore avrebbe raggiunto il quinto e le porte si sarebbero aperte. Avrei guardato nelle stanze e proseguito. Qualcuno iperteso, la maggioranza di loro calmi, seduti a bere un caffè. Sarai andata dritta al pc, sistemando la scrivania per linee parallele, in un altrove che neppure io conoscevo ma, che sapevo mi stava aspettando.

L’Italia festeggiava i suoi centocinquanta anni. A questa festa, Salvatore non riuscì ad arrivare. Morì prima, di mercoledì. Le bandiere si appiccicavano alle pareti dei balconi, dai quali avevano ondeggiato al soffio di un vento quasi primaverile. Mostravano le pieghe ben distinte di quello che era stato il tessuto sventolante poche ore prima. Veniva giù una brutta pioggia. Fitta, fitta, e piena. Le vedevi, lì, quasi tristi, come infastidite per la posizione scomoda, in attesa di seccarsi e venire giù da dove la burrasca le aveva spinte. Ne vedevo almeno un paio chiaramente. Erano state appese dai dirimpettai con orgoglio. Ora però non mi deridevano più con colori brillanti, insultandomi per non essere stata patriottica.

Continuava a essere inverno. Continuava a piovere. Il Napoli continuava a giocare al San Paolo. La gente continuava ad andare allo stadio. Fuorigrotta continuava a riempirsi di tifosi. Le gocce continuavano a cadere grosse. Le vedevo dal letto. Piombavano sulle foglie dei gerani del balcone e poi rimbalzavano sul davanzale. Il cielo era grigio, pallido. Pioveva sempre più forte. I tifosi si sarebbero bagnati. Le foglie dei gerani del mio balcone ora sembravano delle coppe che perdono champagne, come i calici che si scontrano a Capodanno nei brindisi.

Avevo acceso la radio allontanandomi nella doccia. Ero tornata in camera. La radio trasmetteva Toby Keith. Trasmetteva Toby Keith e quel giorno seduti al “Toby Keith I love this bar and grill”, quando per l’ennesima volta mi propose di sposarlo. Andammo sul patio esterno e ci fermammo a fumare una sigaretta, mentre Bricktown scorreva ai nostri piedi, con le sue papere lente e buffe e goffe. Era una bella giornata di sole, quelle nelle quali dire sì ha più senso che dire no. Mangiammo e bevemmo troppo.

La canzone finì, e la radio proseguì con la sua musica country. Ora OKC mi mancava. Mi mancavano gli spazi, fare la spesa da Walmart, noleggiare un film, mangiare Pop tarts, ritagliare i coupon per I-Hop. C’erano dei giorni a Oklahoma City nei quali non smetteva di piovere. Il cielo era sito d’ingombro, di nuvole pesanti e tuoni chiassosi. Le sirene di macchine della polizia, ambulanza e vigili del fuoco distorcevano la tempesta. Aspettavo l’arrivo di un tornado, improbabile a Downtown che si diceva comune nella zona di Normann o Moore. Mi rifugiavo nel business center, in faccende, circondata da sconosciuti con cui scambiare parole non impegnative, veloci.

Ora la radio trasmetteva Washboard Lisa di Grayson Capps, e spegneva la mia memoria.

Now I'm far away
These memories still remain
Now I'm far away
You stay with me the same.

(These Memories, Hollow Coves)