Alcuni anni fa io e mia moglie andammo a trovare i miei genitori. Il loro appartamento non era molto grande e avevano trasformato quella che era la cameretta dove dormivamo io e mio fratello in una sorta di camera per gli ospiti.

Con mio fratello ho condiviso quella cameretta da quando frequentavo le elementari fino ai 25 anni, quando mi trasferii in un appartamento in affitto per cominciare la mia personale avventura di vita. Era una camera modesta in un appartamento in affitto modesto; i miei genitori emigrarono dal sud verso la metà degli anni ’50, quando molti meridionali si trasferirono al nord lasciando le loro case e le loro famiglie distrutte dalla guerra e dalla guerra civile, in cerca di un lavoro. Situazioni drammatiche che, comunque, contribuirono alla rinascita del Paese o almeno a quella del suo nord, fino a dar vita a quello che ancora oggi viene ricordato come il “boom economico”.

Quella cameretta arrivammo a condividerla anche con mio zio che, verso gli inizi degli anni ’70, decise a malincuore di lasciare il suo paese natio per cercare un lavoro al nord. Quindi, per diversi anni, dormimmo in tre in quella stanzetta, due adolescenti e una persona adulta, con esigenze diverse e modi diversi di intendere la vita comunitaria. Soprattutto io, ritenuto da sempre e da tutti la pecora nera della famiglia, il ribelle con i capelli lunghi e la passione per la musica di quegli anni, che suonava la chitarra in una band locale. Figuratevi che pazienza avevo a condividere quello spazio angusto con quel bravo figliolo che era mio fratello e con un adulto che mi aveva tolto quel poco di spazio che quella stanzetta mi consentiva e che quindi vivevo come un intruso rompiscatole.

All’epoca frequentavo il liceo artistico – noto covo di sovversivi – e quando tornavo a casa disegnavo con la musica a tutto volume: non era ancora l’epoca dei walkman e delle cuffie. Pertanto mio fratello non aveva la tranquillità necessaria per studiare e i vicini di casa si lamentavano con mia madre per il volume alto. Ero proprio un fastidio per tutti e tutti mi davano fastidio.

Questi erano i pensieri che mi passavano per la mente quella sera prima di addormentarmi nella mia vecchia cameretta, assieme a mia moglie. E quella notte di molti anni fa fu una notte che non scorderò mai. Mi svegliai di soprassalto perché non riuscivo a respirare. Cercavo di incamerare aria, ma la mia gola sembrava sigillata, ermeticamente chiusa. Mi alzai e vagai per la casa, come se lo spostarmi da una stanza all’altra mi potesse far trovare un luogo dove l’aria riprendesse a fluire nei miei polmoni. Niente! Non succedeva nulla e non riuscivo, di conseguenza, neanche a parlare per avvisare gli altri. Non so per quanto andò avanti, sicuramente abbastanza per pensare che sarei morto.

Una sensazione che avevo già provato quando, durante uno dei miei viaggi in Oriente, contrassi la malaria e una notte, da solo in una casetta in mezzo alla giungla indiana, pensai che fosse giunta la mia ora. Ma al contrario di quella volta dove presi la possibilità di lasciare il mio corpo con estrema serenità, quella volta a casa dei miei genitori speravo solo che prima o poi un po' d’aria riuscisse a entrare nei miei polmoni. Poi, ad un certo punto, cominciai a percepire un sottilissimo filo d’aria che si faceva strada nella mia laringe; proprio poca, ma sufficiente a mantenermi in vita. Un filo sottilissimo di aria fresca che, a poco a poco, aumentò di volume fino a farmi tornare a respirare quasi regolarmente.

Cos’era stato, perché mi era successo questo? Mi resi conto nel profondo del mio essere di quanto si dice di solito, che siamo sospesi a un filo, che non c’è certezza di nulla e che la vita non va sprecata perché potrebbe terminare da un momento all’altro, senza preavviso. Dopo essermi ripreso tornai nel mio letto, ma non mi andava di sdraiarmi ancora e di tronare a dormire: quanto accaduto mi aveva sconvolto nel profondo. Mi sedetti sul letto con le spalle appoggiate alla testiera sbigottito da quell’esperienza estrema.

E fu in quel momento che ebbi quello che credo si possa definire un’epifania o comunque una visione, un’immagine. Perché proprio un’immagine si presentò nella mia mente. “Vidi” una figura formata da diversi piccoli puntini ognuno di colore diverso che, visti da vicino non significavano nulla, ma che da lontano davano senso all’intera immagine. Vi ricordate quel gioco per bambini degli anni ’60 chiamato “Coloredo”? Era quella tavoletta con tanti fori equidistanti in cui si infilavano i chiodini colorati per formare figure. Ve lo ricordate? Ecco, era pressappoco quella l’immagine che mi si presentò nella mente.

E anche il chiodino che isolato era di un colore bruttissimo, inserito nell’insieme acquistava senso e dava senso a tutta l’immagine. Non vidi l’immagine nel suo complesso, ma capii che ognuno di noi, per quanto brutto, avido, violento, meschino (continuate voi con l’elenco) possa essere, ha comunque senso e posto nell’immagine complessiva. Sto quindi giustificando le miserie dell’animo umano? Per nulla, anzi, al contrario mi piace pensare che ognuno di noi abbia il dovere di evolvere personalmente, se vogliamo utilizzare un termine ambiguo, di migliorarsi. Perché in questo modo, il suo cambiare colore si rifletterebbe inevitabilmente su tutti gli altri chiodini attorno a lui e il quadro d’insieme stesso cambierebbe. L’immagine nel suo complesso non è immutabile, statica, ma evolve assieme a noi.

Nulla in natura è sempre simile a se stesso, ma tutto si evolve; l’intero universo è in uno stato di continua e disordinata mutazione di stato e di forma; ma, al tempo stesso, tutto ciò produce un ordine perfetto. Lo dice anche la fisica quantistica:

“Se si osserva da molto vicino la più lucida e levigata delle superfici, ci si imbatte subito nella danza caotica dei componenti elementari della materia che fluttuano, oscillano, interagiscono e cambiano natura a un ritmo frenetico [...] La materia sul piano microscopico segue implacabilmente le leggi della meccanica quantistica, dominate dal caos e dal principio di indeterminazione. Nulla sta fermo, tutto ribolle in una straordinaria varietà cangiante di stati e possibilità. Ma quando osserviamo grandi numeri di quelle particelle, quando le strutture diventano macroscopiche, i meccanismi che ne regolano la dinamica acquistano, quasi magicamente, regolarità, persistenza, ordine ed equilibrio.”

Similmente ognuno di noi ha la possibilità di cambiare, di evolversi in un altro stato e questo influenzerebbe invariabilmente lo stato di chi è a noi vicino. Di conseguenza, il disegno nel suo complesso muterebbe. La vita non è e non può essere statica. Ciò che è statico, immutabile è morto e la vita non può essere morta.

Note

Guido Tonelli, Genesi - Il grande racconto delle origini, Milano, Ed. Feltrinelli, edizione settembre 2020