Domenico Tappero Merlo è professore del modulo di Gusto e Sostenibilità al master in Comunicazione per le industrie creative all’Università Cattolica di Milano e Console Credendario, ossia Presidente, del Consiglio Grande della Credenza Vinicola di Caluso e del Canavese.

Da sommelier e vignaiolo innamorato della sua terra, il Canavese, ci accompagna alla scoperta dell’Erbaluce di Caluso, celebrato come vitigno dell’anno 2023 del Piemonte, e delle grandi potenzialità per la valorizzazione culturale e lo sviluppo sostenibile delle realtà rurali italiane. alla scoperta dell’enogastronomia di Ivrea. Un viaggio tra promozione culturale, valorizzazione e sostenibilità.

"Erbaluce", un nome elegante e poetico per un prestigioso vitigno autoctono. Ce ne racconta la storia?

Le racconto questa bellissima leggenda racchiusa in una bottiglia di erbaluce.

Un tempo sulle colline moreniche lasciate dai ghiacciai dimoravano le ninfe, venerate insieme alla Notte, al Sole, alla Luna, ai Venti, alle Stelle. Alba era una di quelle Dee, solita indugiare sulle rive dei ruscelli. Un giorno, complici le nubi, ad Alba apparve di nascosto il Sole, il quale, rapito da tanta bellezza, subito se ne innamorò. L’incontro fu difficile, perché il Tempo non consentiva al Sole di non apparire se non quando l’Alba non c’era già più.

Tutto il mondo celeste ne pativa: le Stelle, la Luna e la stessa madre Terra. Fu la Luna, sorella del Sole, a risolvere la situazione. Ella un dì decise di non lasciare il cielo, ma di interporsi sul cammino del Sole, in modo che questi, nascosto, potesse raggiungere la Terra per incontrare Alba. L’abbraccio fra i due innamorati avvenne sul bric più alto delle colline che circondano Caluso. “E’ un un’eclisse ” dissero i saggi. “Era un sogno d’amore che si avverava”, sentenziò la leggenda. Da quell’amore nacque una bimba che, chiamata Albaluce, aveva gli occhi color del cielo, la pelle di rugiada e i lunghi capelli splendenti come raggi di sole.

La fama della sua bellezza arrivò ben lontano dal BRIC di Caluso. Ogni anno venivano al tempio cacciatori e contadini, pastori e pescatori per offrirle i frutti del campo, la cacciagione, i pesci dalle squame scintillanti, il fresco formaggio nei canestri di giunco. Si faceva festa, si scambiavano merci, si rendeva omaggio alla Bella Albaluce, che veleggiava sul lago condotta da bianchi cigni. Un giorno però giunsero i capi tribù al comando della regina Ippa. Il motivo? Occorreva terra da coltivare e il lago non dava frutti sufficienti. I verdi ruscelli e le limpide acque lasciarono il posto a campi in cui seminare. Lo scavo del grande canale per far defluire le acque fu un lavoro immenso e l’acqua così costretta travolse tutto, seminando la morte. Triste è la Ninfa Albaluce quando attorno a lei si radunarono sette giovani rimasti fedeli all’antico rito. Nel guardare gli arbusti rinsecchiti, che ricoprivano le verdi rive di un tempo, la giovane pianse.

Fu il pianto del Sole e dell’Alba, un pianto che ridonò la vita. Infatti quelle lacrime trasformarono i secchi arbusti in vigorosi ceppi, da cui s’alzarono lunghi tralci e da cui, ancor oggi pendono dolci, dorati, grappoli di succosa uva bianca. Questo fu il dono della Dea ai suoi fedeli. Questo l’atto di nascita del vitigno ERBALUCE, generato dalle lacrime di una Dea, che ha nel cuore i raggi del padre Sole e la tenera dolcezza dell’Alba , quella che sorge ogni mattina sul BRIC di Caluso.

Qual è il principale organo che tutela il vino Erbaluce di Caluso o Caluso DOCG?

Il Consorzio di tutela e Valorizzazione Vini DOCG Caluso, Carema e Canavese DOC ha da un lato il compito di vigilare sul rispetto del disciplinare di produzione e difendere la denominazione da 1 illeciti, dall’altro quello di promuovere la conoscenza e le peculiarità dei vini rappresentati e di altri derivati dalla vinificazione, anche in relazione agli abbinamenti con la cucina e la gastronomia regionale, locale e con le altre produzioni agroalimentari tipiche della zona. Il Consorzio contribuisce anche allo sviluppo turistico del territorio, svolgendo attività di accoglienza e informazione dei turisti del vino, dell’enogastronomia, della ruralità, promuovendo il territorio vitivinicolo, agricolo e rurale anche da un punto di vista paesaggistico, ambientale, gastronomico.

Quanto la tecnologia ha cambiato l'approccio al mondo del vino?

Se il vino italiano, in questi decenni, è diventato una eccellenza qualitativa riconosciuta a livello mondiale, molto lo si deve alle aziende della filiera tecnologica viti-vinicola che hanno saputo rispondere alle esigenze di un mercato florido e in continua crescita. L'innovazione tecnologica è andata di pari passo con la sostenibilità e possiamo parlare sia di “innovazione in vigneto”, che di “innovazione in cantina” che stanno consentendo di ottenere vini sempre più espressione di vitigno e di terroir.

Alcuni articoli accademici documentano la forte crescita di un recente turismo, collegato alla riscoperta delle biodiversità di un territorio. Quali strategie innovative intravvede per promuovere i paesaggi e i valori del mondo rurale, salvaguardando lo sviluppo in chiave moderna delle opportunità che il mondo contadino è in grado di offrire?

Il turismo enogastronomico è un’enorme opportunità per i piccoli borghi italiani che troveranno nei viaggiatori del gusto nuova linfa capace di garantire loro la sopravvivenza, evitandone lo spopolamento. Vino e prodotti gastronomici sono sempre più "accessori" di promozione territoriale come dimostrano varie ricerche. I dati dello studio della European Travel Commission provano che le proposte a tema enogastronomico saranno le più ricercate dai viaggiatori europei nei viaggi dell’estate 2023, insieme a quelle legate ai paesaggi naturali dove solitamente sono vissute.

Tutto ciò emerge anche dalla sesta edizione del "Rapporto sul Turismo enogastronomico italiano" , nel quale si evidenzia che è alta la partecipazione a tutte le tipologie di attività, come le esperienze culinarie, le visite ai luoghi di produzione, eventi, itinerari tematici. In futuro sarà molto importante preservare e valorizzare il patrimonio enogastronomico, i paesaggi, le piccole botteghe e gli artigiani del gusto per garantire una crescita costante che, a fianco delle mete più note, come le grandi città d'arte, possa far emergere i piccoli borghi ritenuti i veri custodi delle tipicità.

Sta emergendo quell'Italia minore, ricca di patrimoni storico-artistici, custode delle tradizioni che va ad intercettare i nuovi trend che indicano turisti italiani ed esteri desiderosi di scoprire nuove mete, per vivere esperienze autentiche a contatto della natura. Tra le più richieste ci sono le degustazioni in vigna, gli eventi che abbinano gusto-arte-musica, il foraging (la ricerca di erbe, radici e frutti selvatici edibili). C'è poi un aspetto salutista non trascurabile. Infatti il turista utilizza il viaggio per dedicarsi al proprio benessere e imparare ad adottare stili di vita più salutari. L’ambito rurale costituisce poi il luogo ideale per allontanarsi dalla routine giornaliera, dalla tecnologia, dalla confusione e dall'affollamento delle città.

Condivide l'espressione: " Impariamo a degustare i territori?"

Assolutamente si. Il cibo è una lingua universale che non ha bisogno di traduzioni. Possiamo comunicare il nostro amore, il dolore, i sogni e le esperienze attraverso il cibo. Abbiamo l'opportunità di aprirci l'un l'altro e condividere le nostre vite quando mangiamo insieme. Viaggiare in luoghi diversi, vicini o lontani, ci tenta a provare nuovi cibi e interagire con le persone con cui mangiamo. Molte civiltà si sono espresse attraverso il cibo. Il cibo non è solo necessario per la sopravvivenza, è un'espressione di ciò che siamo. Per accogliere gli ospiti offriamo cibo. Il cibo provoca una reazione emotiva e fisica oltre ad attivare i nostri sensi all'ambiente circostante.

Il cibo racconta chi siamo, racconta la storia dei luoghi, mentre gli ingredienti suggeriscono come sono avvenute le contaminazioni tra i popoli, l'integrazione delle genti.
Il viaggio inizia a tavola e ogni piatto può essere una guida che ci avventura nella scoperta di un territorio a noi sconosciuto.

Nel Novecento l'immaginazione collettiva identificava la fabbrica della Olivetti con Ivrea e il Canavese. Ritiene possibile in un prossimo futuro che l'immaginario comune associ l'Erbaluce con questo lembo di Piemonte?

Ogni luogo si identifica in un simbolo, qualcosa che lo renda unico e inconfondibile. Per circa un secolo il Canavese si è identificato nella Olivetti. Un'azienda che ai tempi di Adriano Olivetti era all'avanguardia nella ricerca, nel design, nell'innovazione tecnologica, nel welfare aziendale. Oggi il Canavese è una regione che ha molte carte da giocare: natura incontaminata, elevata qualità della vita, vari siti Unesco, una storia antica, ricchissima di cultura ed eccellenze. Quest’ultime sono così tante da rendere difficile la scelta di un unico simbolo sotto il quale riassumere tutte le sue anime. L'Erbaluce potrebbe essere la sua nuova bandiera, un vitigno nobile, di antichissime origini, una vera eccellenza nel panorama vinicolo italiano, in grado di eccellere in tutte le sue versioni: spumante, fermo o passito. Il mercato è sempre alla ricerca di novità, di nuove scoperte e l'Erbaluce, nell'anno in cui è celebrata vitigno dell'anno della Regione Piemonte, potrebbe essere il vino del momento. I segnali ci sono tutti, dobbiamo soltanto crederci tutti e fare uno sforzo comune per farlo salire agli onori della ribalta. Ed è certo: questo avverrà.

Lo scrittore inglese Beverley Nichols sosteneva: "Affondare il proprio badile nella propria terra! La vita ha mai avuto qualcosa di meglio da offrire?" Il suo rapporto con le sue vigne è analogo?

Ho sempre creduto che se una persona opera nel rispetto dell’ambiente che lo circonda, integrandosi con esso, senza compromettere quegli equilibri e quelle relazioni che in natura spontaneamente esistono, non necessiti di alcuna certificazione che attesti la bontà del suo operato. La lealtà al territorio è quindi fondamentale per ottenere risultati che siano testimonianza di autenticità e tipicità. Proteggere e conservare ciò che per generazioni si è tramandato in una comunità, in un luogo, diventa l’atto più “estremo” e “rivoluzionario” che oggi si possa compiere.

Ed è così che ho applicato in chiave moderna le tecniche agronomiche che adottate dai vignaioli canavesani nel passato, ponendo particolare attenzione alla struttura organica dei suoli. I trattamenti sono a basso impatto ambientale, con prodotti alternativi a base di arancio dolce, equiseto, yucca, propoli, un ridotto impiego di rame, zolfo in polvere e latte vaccino. In questo modo si favorisce lo sviluppo della flora spontanea e della fauna tipica del luogo per favorire il naturale equilibrio tra le specie. I vigneti sono abitati da lombrichi, maggiolini, api, scarabei, ognuno dei quali contribuisce all’equilibrio del vigneto stesso.

L’attività in vigna è così una continua ricerca, riscoperta e rielaborazione di tecniche del passato, recuperando quanto di valido si praticava storicamente in loco. Sognavo di produrre un Erbaluce diverso dal solito. Un bianco da invecchiamento. Un vino che sapesse esaltare le caratteristiche del territorio e che racchiudesse l'essenza dell'anfiteatro morenico e la forza del ghiacciaio che lo aveva generato. Un vino da assaporare nel tempo e che sapesse sprigionare quei sentori granitici, ereditati dalle vette alpine che ne avevano generato il terreno.

Un vino dal forte imprinting territoriale, nel quale fosse racchiusa la storia delle sue genti, delle sue tradizioni, di un vitigno antico anche in grado di celebrare gli sforzi di una vita di un vecchio vignaiolo: Domenico Tappero Merlo per tutti KIN. KIN era mio nonno. Un uomo semplice dai grandi ideali, dalla vita scandita dai tempi di vigna e cantina, perché nulla era più importante del suo vino, del suo Erbaluce. Era un artista. La vigna era la sua tela, l’Erbaluce il suo pennello, il sole, la pioggia, il terreno i suoi colori. Ogni anno ci presentava una nuova opera: l’ultimo suo vino. Ho ereditato da lui la passione per la vigna, la cura dei particolari, le pazienti osservazioni, cercando di interpretare al meglio la sua filosofia che si esprimeva con gesti semplici, di antica saggezza e un profondo rispetto per la natura. Ora il vino KIN è uno scrigno olfattivo, da cui si sprigionano delicate sensazioni minerali e intense note di timo, rosmarino, erbe e fiori secchi di montagna. Ogni goccia di KIN contiene l’austera essenza del granitico animo del Monte Bianco, del Rosa, del Cervino, del Gran Paradiso per ricordarci come solo il vino possa essere il rappresentante più autentico di un territorio e il suo miglior ambasciatore.