Quando parliamo di risotto, la prima immagine che ci si palesa di fronte ha a che fare con uno dei classici della cucina tradizionale milanese: il risotto giallo. Dal colore intenso, con quel profumo delicato ma allo stesso tempo deciso, il risotto alla milanese è oggi uno dei capisaldi culinari dell’head quarter lombardo.

In pochi sanno però come l’ingrediente protagonista di questo piatto, il riso, sia arrivato sulle nostre tavole, attraverso quali culture ed epoche sia passato prima di trasformarsi in elemento fondamentale di questa intramontabile ricetta.

Le prime testimonianze di coltivazione del riso ci arrivano da un contesto molto lontano sia in termini temporali che spaziali, ed è quello babilonese. Qui, diverse fonti attestano che la coltivazione del riso fosse ampiamente diffusa, ma non come alimento per l’uomo: infatti, inizialmente, venne impiegato come base per il mangime degli animali. Saranno gli Egizi a iniziare un vero e proprio culto del riso, utilizzandolo questa volta per infusioni a scopo medicinale.

Con l’avvento del Medioevo poi, abbiamo un sostanziale cambio di rotta: è in questo periodo che il riso finalmente entra in scena come ingrediente della dieta nel quadro “italiano”, attirando a sé miti e leggende che ne hanno reso i contorni genealogici sempre più sfumati.

Iniziamo in primis ad analizzare le teorie che spiegherebbero come il riso sia stato riscoperto a livello gastronomico in Italia. Scartando quelle meno affidabili, l’attenzione verte su tre ipotesi: quella napoletana, quella veneziana e quella siciliana.

Nella versione napoletana, si racconta che nel 1400 siano stati gli stessi Aragonesi ad aver svelato alla città di Napoli i segreti del magico mondo del riso: in Catalogna infatti era già presente una ricetta chiamata Biancomangiare, un dolce realizzato con la farina di riso. La seconda poi, quella veneziana, affida l’avvento del riso in cucina alla contaminazione gastronomica derivata dai traffici mercantili di Venezia con l’Oriente, madrepatria di questo prezioso ingrediente.

Infine arriviamo all’ultima, l’ipotesi siciliana, che descrive l’arrivo del riso a tavola come viaggio attorno al mondo siciliano ai tempi della dominazione araba.

Ciò che rende il tutto ancora più interessante è che un’ipotesi non esclude completamente l’altra: anzi, è probabile che il riso abbia trovato più strade per giungere qui, in Italia. Un destino dunque, quello del risotto, che è stato deciso fin dal principio della storia italiana, secoli prima che l’unificazione ne delineasse i limiti territoriali.

Penserete di essere arrivati quasi al succo della questione, in procinto finalmente di scoprire come sia nata la preparazione burro-cremosa del risotto alla milanese. Mi spiace deludervi, ma dovranno passare ancora tre secoli prima di vederlo comparire nei ricettari ufficiali!

Il nostro povero riso dovrà difendersi da una serie di fake news e maldicenze che porteranno gli stessi amanti risottari ad allontanarsi per ben trecento anni dalla sperimentazione culinaria: dopo un boom iniziale a fine 1400, che lo vede al centro di test alimentari (non del tutto riusciti) con prodotti da forno a base di farina di riso, l’ondata si blocca a inizio 1500, quando viene identificato come causa della diffusione della malaria.

Una volta sfatato il mito della malaria, finalmente il risotto alla milanese può fiorire sui banchetti italiani Ottocenteschi, ma si ritrova ancora una volta nel mirino di una faida culturale: se da un lato nasce la leggenda che lega il risotto giallo alla costruzione del Duomo di Milano, dall’altra deve sgomitare tra le altre versioni di risotti ormai diffuse nel resto della penisola.

Partiamo dalla leggenda.

La figura principale di questa storia è il mastro vetraio Valerio di Fiandra: impegnato a fine del 1500 nella realizzazione delle vetrate del Duomo di Milano, aveva l’abitudine di prendere in giro un suo assistente, il cui soprannome era proprio “Zafferano”. Il soprannome non fu di certo deciso a caso, era infatti risaputo che Zafferano avesse l’abitudine di aggiungere un cucchiaino di questa particolare spezia a tutti i colori utilizzati per le vetrate, in modo tale da renderli più brillanti. Quando il maestro scherzosamente gli disse che prima o poi ci avrebbe condito anche il cibo con lo zafferano, l’assistente decise di rispondere il giorno delle nozze della figlia di Valerio, convincendo il cuoco ad aggiungere un cucchiaino di zafferano al piatto principale del banchetto: il riso al burro.

Un ingresso documentario trionfale quindi, che vede collegata la nascita di uno dei più grandi simboli architettonici della milanesità, il Duomo, e il volto gastronomico della stessa città, il risotto alla milanese.

D’altro canto però, come vi avevo accennato, erano nate anche altre versioni del risotto. Una di queste venne difesa a spada tratta dallo stesso Giovanni Pascoli, che tramite una poesia tentò di innalzare il risotto romagnolesco - un piatto a base di risotto allo zafferano ma insaporito da fegatini di pollo, funghi e pomodoro - al pari del fratello milanese.

Ma il risotto allo zafferano non crolla nemmeno di fronte al tentativo di spodestamento pascoliano: un piatto così essenziale, e allo stesso tempo ricco, che racchiude nella sua semplicità il sapore delle contaminazioni culturali e storiche del nostro paese, non poteva piegarsi nemmeno di fronte alla competizione con versioni apparentemente più accattivanti.

Non è un caso che autori come Carlo Emilio Gadda ne abbiano glorificato la bontà, o che grandi chef del calibro di Gualtiero Marchesi lo abbiano utilizzato come punto di partenza per la creazione di piatti meravigliosi.

Che lo si odi o lo si ami, nessuno può contestare il fatto che il destino gastronomico di ogni singolo lombardo sia stato segnato in un qualche modo dal risotto alla milanese. Sarà per questo motivo che oggi, vivendo in un’altra regione che si muove per sapori e aromi tutti suoi, un po’ estranei a volte, mi ritrovo a preparare questo piatto quasi fosse una necessità: il risotto alla milanese è, per me, il sapore di casa.