Costruzione

Io e Chiara siamo amici da sempre. Siamo nati insieme, cresciuti insieme. Le prime parole, i primi passi, le prime cadute… tutto insieme; tutto nel giardino di quella che è sempre stata la mia casa. È lì che abbiamo costruito la nostra casa sull’albero. Partì tutto come un gioco, una stupidaggine vista in tv ci diede l’idea. I nostri genitori ci aiutarono anche perché a quell’età di certo non si è in grado di montare travi di legno e reperire tutti i materiali necessari. Da piccoli l’avevamo talmente tanto ben focalizzata nella nostra fantasia che ci sembrò non esserci e poi esserci sempre stata da un giorno all’altro, come se costruire qualcosa fosse sempre così facile facile, come quando ti accorgi di avere quella determinata personalità e pensi venga dal nulla quando in realtà l’hai costruita passo dopo passo senza rendertene conto. Chiara un padre non ce l’aveva ma non per questo perdeva il sorriso, tranne nel giorno del suo compleanno, infatti andavamo nella casa sull’albero con tovaglia e torta, lei spegneva le candeline ed esprimeva il desiderio come fa ogni bambino ma sul suo volto un velo di tristezza passava in quella frazione di secondo e non tornava più fino all’anno dopo.

Così passano gli anni, senza accorgersene. Un momento prima la casa sull’albero ti sembra grande e un momento dopo non passi più dalla porta. Appena abbiamo avuto la possibilità l’abbiamo ampliata, espansa e costruita ancora e ancora in modo da renderla sempre più nostra. Non c’era giorno senza andarci, sole o pioggia, freddo o caldo… felicità o tristezza. Io ero più felice di Chiara o forse lei semplicemente nascondeva meglio la tristezza. Abitavamo vicini, così vicini da poter quasi sentire le litigate che faceva con la madre. Non serviva a nulla origliare visto che, pochi secondi dopo le ultime grida, era qui, nella casa sull’albero con me a raccontarmi tutto. Io con i miei genitori avevo un rapporto standard, un elettrocardiogramma regolare di una persona in salute, non c’erano picchi troppo positivi e nemmeno picchi troppo negativi… almeno fino al giorno in cui mia madre si ammalò.

Non lo so se esiste uno schema standard che noi esseri umani abbiamo per affrontare il discorso con la morte. Sembra una cosa così lontana finché non ti entra in casa, ma quando successe a me io ero qui, seduto dal mio lato della casa sull’albero che nel frattempo era diventata talmente grande e talmente personale da essere equamente divisa tra me e Chiara. Quando successe che mia madre morì, pensai al nulla e non gli diedi forma e l’unica luce positiva fu quella convinzione che oltre tutta la vita passata in condivisione con Chiara, ora avevamo una cosa in più in comune: un genitore in meno. Non lo sapevo all’epoca ma ora si; fu lì che diventai più cinico e iniziai a mascherare i dolori perché un brutto voto o qualche presa in giro a scuola non sono paragonabili ad una perdita e quindi non valgono la pena di essere pianti.

La vita non è mai costante, è una fortuna a volte, e in tutto quello che può succedere a due persone che sono nate e cresciute insieme, l’incostanza non ha valore finché quelle due persone restano insieme. Chiara non era una sorella, non era un’amica, non era la prima fidanzata o il primo amore, era come la casa sull’albero: l’unica costante. I gusti cambiavano, i capelli, gli occhiali, gli arredi, le classi, le passioni… ma noi eravamo lì, sempre.

La perdita di un genitore per Chiara era stata la base sulla quale aveva costruito la sua esistenza e per me era stata una tappa sulla quale avevo costruito la seconda parte della mia personalità, quella meno espansiva, quella più solitaria… l’unica perdita che non avrei mai accettato sarebbe stata quella di perdere lei e di perdere la nostra casa sull’albero.

Un giorno Chiara venne da me piangendo, salì alla velocità della luce, io ero già su, come sempre: «È finita! È tutto finito!» urlò disperata. Cercai di calmarla al più presto ma l’agitazione prese anche me. «Mia madre ha perso il lavoro, è una stronza! Non sa fare niente se non perdere le cose e rovinare la mia vita!». «E adesso?». «Adesso dovremmo trasferirci, perderò tutto, non potrò più stare qui con te tutti i giorni».

Non smetteva di piangere e io non sapevo cosa fare. Avvertì un calore nello stomaco più forte di qualsiasi altra sensazione mai provata; la difficoltà non era dare un’intensità ma distinguere a quale emozione appartenesse. Dovevo salvarla come se stesse affogando ma quello in alto mare ero io. Cosa potevo fare? Razionalizzai il dolore… feci così e ora lo so, ma a 14 anni che ne potevo sapere? Avvenne e basta e forse non era la prima volta. L’afferrai con tutta la forza e la baciai mentre era ancora in lacrime. Lo feci per tenerla lì, come se incollare le labbra di due persone servisse per tenerle unite. Che strano primo bacio; non avveniva così nei film che guardavamo insieme, in nessuno, né in quelli d’azione che sceglieva lei e né in quelle commedie d’amore che sceglievo io. Quando c’era una storia d’amore anche nei film d’azione, perché una storia d’amore c’è sempre, lei a volte diceva: «Bleh! Forzatissima!». «No, non è vero», rispondevo io sorridendo, «l’amore non è mai forzato». «Ah no? E mia madre…» concludeva lei. Non osavo andare oltre. Sapevo che l’amore da cui lei era nata non era stato vero amore ma questo era solo quello che passava dai suoi racconti che a sua volta subivano il filtro dei racconti della madre. Una parte di me non aveva mai voluto crederci e non aveva mai voluto dirlo. In ogni caso non c’era una verità assoluta e davo per buono quel dolore.

Quel bacio durò poco, durò tanto, durò il tempo giusto per sentire una lastra di legno del tetto della casa sull’albero incrinarsi sopra di noi e cadere ad un millimetro dalle nostre teste. Ci scansammo di getto separandoci.

«Poteva uccidermi» disse lei. «Sì… beh avrebbe preso entrambi, insieme» risposi. Lei mi guardò intensamente. «Avrebbe fatto male comunque, anzi poteva ucciderci… solo oggi». «Solo oggi cosa?». «Solo oggi poteva ucciderci, pensaci; oggi eravamo al centro, in piedi, attaccati l’uno all’altro come se fossimo tutt’uno… quando mai siamo stati così?!». «Sempre» dissi secco io. «Mai», rispose ancor più secca lei, «questo significa che è stato uno sbaglio» concluse andandosene.

Il mio tentativo di fermarla non fu così convinto, anzi; mi fermai io davanti alla scala e restai su guardandola scendere. Quel bacio non era servito a nulla e aveva fatto più danni che altro. Dovevo scendere e inseguirla? Non lo so, non si può mai sapere “come sarebbe andata se”. Tra quelle quattro mura in legno io ero al sicuro, anche se il tetto si era aperto e ci stava cadendo sulla testa, non avrei mai demolito la mia zona di felicità, la zona nella quale il dolore non entrava. Il calore nello stomaco passò ma restò un senso di vuoto che non sapevo colmare.

Tornò dopo un mese a prendere degli scatoloni dalla casa che stava lasciando. Non era mai venuta prima ma quella volta arrivò e prima di andarsene si presentò sotto la scala della casa sull’albero con un martello e dei chiodi e un sorriso smagliante. La invitai a salire e riparammo il tetto. Un mese prima demolizione e quello dopo ricostruzione, ma qualcosa era diverso tra noi, non c’era più quella semplicità di un tempo. Andandosene mi disse: «Questa casa ha resistito a neve e temporali e si ferisce con un bacio». «Tutto l’odio che hai verso le storie d’amore dei film l’avrà assorbito» l’accusai non volendo, ero arrabbiato ma cosa ne potevo sapere?

Sorridemmo ma con poca convinzione. Esistono i sorrisi senza felicità e quello non era il primo della mia vita.

«Finché questa casa resta in piedi, io ci sarò per te» concluse andandosene.

Scoppiai a piangere seduto nel mio lato della casa. Quel calore nello stomaco si fece cento volte più intenso dell’ultima volta e non sapevo come mandarlo via. Mi alzai di scatto e presi a pugni il muro dal suo lato della casa. Volevo spaccarlo con tutta la forza, volevo demolirlo e non capivo neanche il perché. I pugni sul muro mi distrussero la mano e lasciarono la casa intatta ma questa cosa non mi fermò; girandomi esitai un secondo guardando la mano ferita e poi diedi un pugno solo, secco, sul muro dal mio lato e la tavola sulla quale avevo colpito si crepò tanto da lasciare intravedere parte dell’esterno. Mi fermai ma non per il dolore. Non sentivo niente. Non per il sangue, non m’importava… il fuoco nello stomaco era sparito. Ero distrutto, terrorizzato, in lacrime e sanguinante da una mano. Presi il piccolo kit di pronto soccorso, avevamo anche quello perché non si sa mai, e mi fasciai le nocche dopo averle disinfettate. Bruciava ma non era nulla in confronto a quello che avevo provato, quasi come se il dolore fisico fosse un piacere rispetto a quello nello stomaco. Pensai a quella volta che Chiara si sbucciò un ginocchio per colpa mia, fu lì che ci venne in mente l’utilità del kit anche se non l’avevamo mai usato fino a quel momento. Il suo lato della casa era intatto dopo tutti i miei pugni mentre il mio era crepato dopo un singolo colpo. Nessun pugno aveva attenuato il fuoco di quel dolore tranne l’ultimo, per Chiara quello sarebbe stato un segno, avrebbe avuto un qualche significato; ma senza di lei io non riuscii a decifrarlo.

Distruzione

Chiara iniziò a venire meno spesso a trovarmi nella casa sull’albero. Portava cose e abbelliva il suo lato ma non sembrava convinta. Non mi raccontava più quello che provava e che sentiva. Il tempo passava e i gusti musicali cambiavano, le classi andavano avanti e io non riuscivo a ritrovare nessun rapporto come quello che avevo con lei; nessuna persona era mai salita nella casa sull’albero e non avevo intenzione di far avvicinare nessuno così tanto: perché avrei dovuto? Era tutta la mia vita, tutta una vita racchiusa in qualche trave di legno. Chi, oltre a Chiara che l’aveva vista venire su insieme e a me e aveva contribuito a renderla ciò che è, poteva arrogarsi il diritto di metterci piede e portare dentro il suo pensiero, il suo odore e la sua anima… nessuno. Nel frattempo Chiara si faceva sempre più bella, cambiò modo di portare i capelli, modo di portare i vestiti, si liberò di tutto ciò che appartiene ad un’infanzia che non la riguardava più. Veniva sempre meno spesso perché aveva nuovi amici, frequentava persone del tutto diverse da me. Iniziò a truccarsi; non mi piaceva per niente col trucco ma non ebbi il coraggio di dirlo perché in cuor mio pensavo sarebbe stato inutile. Si fece gli orecchini, il piercing al naso, il motorino… come si fa ad impedire ad un bruco di diventare farfalla? Si deve colpire quando è più fragile, mentre è nel bozzolo, e lei era nel bozzolo in quel momento. Cosa avrei dovuto fare? Buttarla giù dalla casa così da interrompere questo processo che nel frattempo in me stava creando odio, rancore, dolore inespresso, o peggio; dolore razionalizzato? Quando ero solo cercavo di dare una spiegazione a tutto, cercavo di dare una spiegazione ad ogni suo comportamento normalizzandolo e dicendomi che un giorno sarebbe tornata da me quella che era un tempo e si sarebbe accorta che quel bacio doveva essere la costruzione di qualcosa e non la distruzione. Un bacio che per me simboleggiava un pezzo in più d’aggiungere alla nostra casa mentre per lei aveva significato l’inizio della distruzione, il crollo di una parte del tetto. Mi sentivo in colpa, io l’avevo baciata quindi ero stato io a distruggerci.

Iniziò a venire ancora meno spesso e io provavo quel fuoco ogni giorno più intenso. Bruciore nello stomaco che nel frattempo era sfociato in violenza verso la casa stessa, verso il suo lato della casa. Quando non si presentò al suo diciottesimo compleanno non ressi. Iniziai a pensare a come si fosse trasformata davanti ai miei occhi e quando venne, diverso tempo dopo, sbottai:

«Perché non sei venuta al tuo compleanno qui?!». Stringevo i pugni al limite di sopportazione. «Il mio ragazzo mi ha organizzato una festa». «Quale ragazzo?». «Ho un ragazzo! Fattene una ragione, non lo conosci e non lo conoscerai mai perché non esci mai da qui». «Come hai potuto farmi questo!?». La mia rabbia era fuori controllo. «Cosa cazzo pretendevi da me?! Che vivessi per sempre qui in queste quattro mura di legno? Guardati intorno, si regge perché tu sei qui dentro a tenerla in piedi invece di mettere piede fuori e vivere la tua vita».

La casa si reggeva perché si reggeva e basta, di questo ero convinto; non era vero che la stessi tenendo viva io, facevo di tutto quando non c’era, picchiavo il suo lato con tutta la forza ma non veniva giù mai. Coesistevano dentro di me la voglia di tenerla in piedi quanto quella di farla a pezzi e vederla disintegrarsi sotto le mie mani, forse per questo si reggeva; due volontà contrapposte che lottavano ogni giorno tanto da tenerla in piedi nel mezzo. Pensieri che hanno la capacità d’impedire a qualcosa di fisico di crollare e che al contempo demolivano gran parte delle mie energie quotidiane perché questo scontro avveniva tutto dentro di me. «La nostra vita è qui!» urlai. «La tua vita è qui! Io sono cambiata, ho conosciuto il mondo e sai che ti dico: mi piace! Mi piacciono le feste, l’alcol, uscire, fare sesso…». Ero paralizzato e al contempo furioso. Presi in mano il coltello da scout che avevo nella casa, quello che usavo per incidere il legno che era lì per qualsiasi emergenza e per fortuna non era mai servito. «Che vuoi fare?» chiese Chiara spaventata indietreggiando verso il suo lato della casa. Le andai addosso per colpirla con tutta la forza senza controllo. Lei riuscì a schivarmi e colpii il suo lato della casa con una coltellata che venne respinta dal legno e rimbalzando mi slogò il polso. «Tu sei pazzo!» urlò lei. «Se sono pazzo perché vieni ancora qui?». «Non lo so perché vengo ancora qui, ma non mi vedrai mai più».

Se ne andò.

La mia rabbia non era passata; il dolore e l’odio erano alle stelle e con gli occhi pieni di lacrime caricai verso il mio lato della casa dopo aver cercato di spazzare via tutto ciò che c’era di Chiara qui. Iniziai a colpire con pugni, calci e colpi di avambraccio disperati il mio lato finché, senza accorgermene, stava cadendo a pezzi tanto che rischiai di cadere giù anch’io. La paura mi bloccò e un paio di tavole di legno si staccarono dal soffitto sul mio lato e mi caddero in testa. Quel giorno scesi dall’albero in uno stato pietoso. Mio padre iniziò a farmi domande portandomi al pronto soccorso. Come poteva accorgersi di tutto quello che stavo vivendo? Io non gli dicevo nulla, ero sempre su, chiuso dentro la casa sull’albero e lui sempre in camera a piangere mamma o nel negozio in cui lavorava. Andando verso il pronto soccorso guardai la casa sull’albero da fuori per qualche secondo, forse era la prima volta… era distrutta dal mio lato e intatta da quello di Chiara e io non capivo se si stesse demolendo per causa mia o sua, non sapevo a chi dare la colpa, momenti la davo a me e altri la davo a lei, non c’era un vero bersaglio fisso per il mio odio e la mia rabbia. Era una guerra tra due fazioni nella quale non ce n’era una nel giusto… entrambe causavano morte e devastazione.

Da quel giorno non parlai più e non vidi più Chiara che nel frattempo si era trasferita di nuovo, fidanzata diverse volte con uomini diversi, forse come me ma più pericolosi; non sbagliavano mira quando abusavano di lei e la picchiavano. Era scappata, aveva cambiato cento volte vita, aveva rischiato cose ben più pericolose di una coltellata, si era trasferita, laureata ed era tornata.

La vidi una volta per mano con un uomo, nel frattempo io ero andato con mio padre a lavorare nel negozio, non parlavo ma tanto non mi serviva per spostare pacchi e sistemare cose. La sera in cui la vidi tornai a casa e mi arrampicai sull’albero per prendere di nuovo a pugni la casa che oramai era in condizioni disastrose, senza manutenzione non resse la mia presenza. Caddi con gran parte della casa sopra, la mia parte, perché quella di Chiara era rimasta attaccata grazie a dei rami che erano cresciuti intrecciandola e sorreggendola a fatica. Quella parte di casa non aveva mollato mentre la mia era rovinata al suolo schiacciandomi. Mi ruppi la schiena in quell’incidente e fui costretto sulla sedia a rotelle. Credendo che stessi tentando il suicidio mi misero in una struttura, io non replicai. Sapevo ancora parlare anche se non l’avevo più fatto, ma non valeva la pena spiegare le mie motivazioni, nessuno avrebbe compreso il mio dolore.

Passai tantissimo tempo in quella struttura, per lo più leggendo. Mi trattavano bene. Mio padre venne ogni tanto a trovarmi finché poi smise anche lui. Non valeva la pena tentare di comunicare con un figlio che non diceva più una parola; un po’ lo capisco.

Tutto era andato distrutto. La mia vita era stata attraversata da una guerra che io stesso avevo causato senza capire davvero chi fosse il mio nemico. Avevo lottato con lei o con me? M’interrogai spesso su questo quesito che oramai mi trascinavo da tutta la vita. Per tanto tanto tempo mi sono chiesto il motivo per il quale la sua parte di casa avesse retto sempre, anche quando tutto il resto era crollato su di me condannandomi sulla sedia a rotelle. La sua parte non aveva mai ceduto del tutto. Tutta quella rabbia e quella violenza che avevo dentro non erano bastate per demolirla. Mi resi conto davvero di aver buttato tutta la mia vita solo quando un giorno la incontrai di nuovo. Chiara era diventata una persona che aiutava altre persone, gente come me. Entrò dalla porta il giorno in cui prese in gestione la struttura nella quale vivevo, mi guardò e si bloccò. Iniziammo a piangere ad un corridoio di distanza, senza il minimo rumore nella testa. I pensieri non avevano forma, c’era solo un suono fisso, un rumore bianco. Era alta con i tacchi, o forse la vedevo io così stando sulla sedia a rotelle; aveva un vestito bellissimo, il rossetto rosso e i capelli biondi raccolti. Una donna di successo, piena di cose da dare a questo mondo che piangeva guardando una persona che di quel mondo avrebbe potuto far parte ma ha scelto distacco e distruzione.

Qualche tempo dopo venne da me senza nemmeno salutare e mi trascinò fuori. Arrivammo fino alla mia vecchia casa, quella dove c’era la casa sull’albero, dove c’era tutto il mondo che avevo demolito con le mie mani. Entrò con le chiavi come entrano i proprietari. Mi mise davanti ai resti di quella casa. L’albero era cresciuto e aveva avvolto le travi del suo lato, dopo tutto questo tempo non erano ancora cadute e sembrano essere diventata un tutt’uno. Si sedette accanto a me e disse: «Perché…». Iniziò a piangere e io con lei. Non sapeva che ormai erano anni che non aprivo bocca per dire una parola. «Quella volta che mi hai baciata mi sono spaventata, quella trave caduta mi ha spaventata», continuò, «e quando mi hai aggredita ero terrorizzata, all’epoca non sapevo come reagire, ero piccola e non avevo gli strumenti per quelle situazioni». Ci fu un momento di pausa. «Mmmi… hai… ab…abbandonato» risposi. Le mie parole uscirono irriconoscibili, sembrava che un altro avesse parlato al posto mio. Non avevo più la stessa voce dell’ultima volta, neanch’io mi riconobbi. «Tu ti sei abbandonato cazzo!» Urlò lei… «scusami, scusami non volevo», continuò cercando di mantenere la calma, «tu ti sei abbandonato, dopo che è morta tua madre non hai più saputo gestire le perdite e quando me ne sono andata per colpa della mia di madre e del suo licenziamento hai iniziato a odiarmi perché ti stavo lasciando solo… ma tu hai lasciato solo te stesso e hai iniziato a tenere tutto dentro e far uscire solo l’odio… hai fatto una guerra con te stesso pensando di farla a me».

Aveva ragione.

Si alzò in piedi e disse: «Basta piangere sul passato… è il momento di ricostruire la casa». «N…non, p…potrò sa…salirci». «La costruiremo qui, a terra, sotto l’albero, sotto quella che era la casa prima… la faremo più bella che mai, promesso».

Provai calore. Un calore diverso da quello del passato, non c’era odio, non c’era più rabbia. Di tutto il fuoco distruttivo provato nella mia vita, quello di adesso sapeva di focolare. Tutto sembrava essersi vanificato in un secondo. Finalmente avevo capito perché la sua parte di casa non era mai crollata; perché lei non era mai crollata, era andata sempre avanti nonostante tutto, sbagliando e perseverando, non arrendendosi alla sofferenza come invece avevo fatto io.

Quando la casa fu quasi completa mise un cartello davanti all’entrata con scritto: “C'è un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per la guerra e un tempo per la pace”.

Dopo una vita di sofferenze e autodistruzione, ora finalmente, iniziava la pace.