Il declino è un processo, più o meno lungo, non un subitaneo collasso - determinato da un qualche evento endogeno o esogeno - e ciò rende più difficile, parlando in termini storici, coglierne in modo inequivocabile i segnali, se non quando tale processo è ormai giunto al suo epilogo, ed è estremamente improbabile impedirlo. Il lasso di tempo che intercorre tra il suo inizio e la sua conclusione può essere talmente lungo da comprendere più generazioni. E poiché la storia non è un processo lineare - al più circolare, in un susseguirsi di corsi e ricorsi, come sosteneva Vico - in questo tempo, la tendenza costante al declino può registrare anche momentanee inversioni di rotta, apparenti risalite che possono confondere la percezione generale del fenomeno. Spesso, ciò accade proprio in prossimità della fine: anche alle vicende storiche accade, come in natura, che un sussulto di estrema vitalità preceda l’atto finale. È perciò evento raro che qualche mente più lucida ne colga i sintomi sin dal primo manifestarsi.

Tra queste, sicuramente spicca il filosofo e scrittore tedesco Oswald Spengler, che nel 1918 pubblicava il suo più famoso volume, Il tramonto dell’Occidente. La prima guerra mondiale fu infatti l’inizio della parabola discendente dell’Europa, e Spengler lo colse con grande lucidità; del resto, gli anni tra la prima e la seconda furono abbastanza fecondi in tal senso, e più di una tra le menti migliori del tempo percepirono questa svolta. È in effetti in quella manciata di anni della prima metà del Novecento, che avviene il giro di boa, segnalato non solo dalla virulenta ripresa della lotta per il predominio tra le potenze del vecchio continente, ma anche e soprattutto da altri due eventi significativi, entrambe strettamente legati al conflitto: l’affacciarsi in Europa degli Stati Uniti, che escono dal loro “splendido isolamento”, così come il crollo dell’impero zarista e la nascita dell’URSS, che contribuirà a determinare la ‘separazione’ della Russia dall’Europa.

Altri vent’anni, giusto il tempo di far crescere un’altra generazione di combattenti, ed ecco che la guerra si ripresenta a chiedere il conto; la seconda, infatti, non fu che un secondo round, una ripresa della prima - che del resto, con una pessima pace, ne aveva già gettato le basi. La fine del match non vede però la vittoria di uno dei contendenti europei sull’altro (la storica contesa tra la talassocratica Inghilterra e la tellurica Germania...), ma la sconfitta dell’Europa nel suo insieme. Distrutta, divisa ed assoggettata. Nello spazio di tre decenni, si consuma la fine (ingloriosa) dell’Occidente europeo, della sua supremazia ed egemonia mondiale, durata circa quattro secoli. E contemporaneamente emerge la nuova potenza dell’Occidente, che appunto nel 1945 - tra gli accordi di Yalta e le bombe su Hiroshima e Nagasaki - si afferma come nuovo ‘dominus’ globale. Comincia il ‘secolo americano’.

Ma non tutte le fasi storiche hanno la medesima durata. Per l’Europa, il declino cominciato all’alba del Novecento si può in un certo senso racchiudere in quattro fasi: quella compresa tra le due guerre mondiali è la fase suicidaria, quella tra il '45 ed il '91 (fine dell’URSS) è la fase ancillare, a cui seguirà, sino al primo decennio del nuovo secolo, la fase coloniale. Infine, e ci siamo dentro ancora oggi, la fase servile. L’aggettivazione di queste fasi sta qui evidentemente - ed in modo del tutto arbitrario - a descrivere il rapporto dell’Europa con se stessa, e con la potenza egemone dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America. A cui i Paesi europei, un po’ per imposizione del vincitore, un po’ per scelta di comodo, hanno deciso di affidarsi, accucciandosi ai suoi piedi nella convinzione che averli per ‘amici’ fosse comunque un affare.

Sfortunatamente per noi, la fase storica dell’Occidente ‘atlantico’ non durerà quattro secoli, a malapena ne dura uno soltanto, ed è già quasi agli sgoccioli. Non è semplicemente una questione di potenza militare, che in termini assoluti è ancora considerevole (anche se, relativamente ai ‘competitor’, molto meno), quanto di potenza nel senso più ampio del termine. Che è ovviamente anche e soprattutto capacità di esercitare egemonia senza ricorrere all’uso della forza, è forza morale, è coesione interna. Esattamente come fu per l’Impero romano - cui le élite statunitensi amano paragonarsi - il declino non comincia alle frontiere ma nel cuore dell’impero. E la forza propulsiva dell’american dream si è esaurita da tempo, non affascina né convince più nessuno, proprio a partire dagli USA stessi.

La competizione è esiziale, per gli States, che cercheranno quindi di resistere a qualsiasi costo, opponendosi alle sfide che gli giungono dalle potenze emergenti (o riemergenti). Lo faranno ricorrendo principalmente allo strumento che hanno da sempre preferito, ovvero la guerra, e lo faranno come da tradizione: in prima linea andranno le truppe ‘coloniali’. Sta già accadendo, stanno lavorando affinché accada anche nell’estremo Pacifico. Quanto durerà questa fase, e quanto sarà sanguinosa, non è dato saperlo, e possiamo solo sperare che - pur nella temperie di un conflitto furibondo - prevalga sempre e comunque un barlume di ragionevolezza. La nascita dell’Occidente americano fu sigillata dalle atomiche sganciate sul Giappone. C’è da sperare che la sua fine sia diversa.