Il 2015 fu dichiarato dall’ONU l’anno della luce e al convegno patrocinato dall’UNESCO intervennero esperti di ogni disciplina scientifica impegnati a riferire sulla luce in funzione delle sue applicazioni tecnologiche. Nella definizione scientifica ‘classica’ la luce è l’onda emessa dal Sole attraverso l’atmosfera terrestre nella porzione dello spettro elettromagnetico compresa tra 400 e 700 nanometri di lunghezza. Negli accertamenti novecenteschi della meccanica quantistica, la luce risulta composta di pacchetti di energia (fotoni), chiamati quanti dalla natura duplice, sia ondulatoria che corpuscolare, il che per i fisici e gli astrofisici costituisce tuttora un grattacapo sul quale non mi soffermo. Mentre è importante mettere a fuoco l’altro accertamento della fisica odierna, cioè che l’onda luminosa emessa dal Sole si propaga nel vuoto cosmico, e il vuoto - che non è il nulla! - è un campo dinamico di energia. Tuttavia questa evidenza non basta a sedare interrogativi cruciali sui quali la filosofia occidentale si è arrovellata da millenni a partire dalla domanda angosciosa del Giobbe biblico nell’ A.T.: “Perché esiste qualcosa invece che nulla?”.

Il commercio (commercium) di cui Leibniz scriveva al gesuita Giovanni Laureati missionario in Cina nella frase Commercia inquam doctrinae mutuae lucis è una pietra d’inciampo nell’edificio filosofico occidentale. Credenti, laici fino ai nichilisti del Novecento non hanno smesso di interrogarsi sul dubbio radicale dell’ebreo, facendoselo proprio. È una questione che ha sfidato in Occidente una lunghissima schiera di scrittori, drammaturghi, artisti e poeti. Ma è toccato alla filosofia il ruolo disperante e sublime di avere scrutato la profondità senza fondo della domanda ricorrendo ai soli mezzi conoscitivi del pensiero pensante.

Nella filosofia cinese alla quale Leibniz coraggiosamente si aprì, il quesito assume connotati assai diversi fino a rovesciarsi tranquillamente nella domanda opposta: “Perché dal nulla viene qualcosa?”. Un quesito, tuttavia, in cui non c’è traccia dell’angoscia biblica, quell’angoscia su cui il genio greco ha innalzato l’edificio del dramma tragico.

Il pensiero cinese nella struttura concettuale e linguistica su cui si regge, piuttosto che sollevare domande esistenziali si attiene pragmaticamente alle cose come sono: l’evidenza mostra che il divenire incessante della realtà si nutre e attinge a una fonte energetica, chiamata Qi , impegnata al mutuo scambio, commercium in senso leibniziano , di una forza attiva, virile , luminosa, Yang, e passiva, femminile, fasciata d’ombra, Yin, intrecciate interattivamente nel noto simbolo classico.

Sia il “Perché esiste qualcosa invece che nulla?” su cui si è interrogato con angoscia il pensiero occidentale, sia il “Perché dal nulla viene qualcosa?” che ha nutrito il pensiero taoista nei termini della “teologia naturale” esplorata da Leibniz alla fine della vita - sono domande che seppure apparentemente agli antipodi, implicano la funzione coibente del commercium da intendersi come scambio leale e fruttuoso di conoscenza, senza mai dimenticare che il conoscere è sempre relativo e condizionato, il che è evidente nell’ambito degli stessi saperi scientifici.

L’osservazione scientifica dei fenomeni conduce immancabilmente a formulare delle congetture arrese a incessanti verifiche validate fino a quando un’ulteriore congettura non subentra a invalidarle. C’è però un problema che spetta affrontare: l’enorme accrescimento del sapere scientifico e delle tecnologie ha esteso sempre più la propria capacità esplicativa dell’esistenza e della vita riducendo contemporaneamente l’influenza qualitativa della scepsi che è stata appannaggio nei millenni delle filosofie e delle religioni. Quello che in tutte le civiltà dell’Eurasia era stato il bastione umanistico di sostegno fondato sull’esperienza esistenziale della luce e della sua assenza - ha incominciato a cedere, incrinato dalla mens scientifica attestata, nel caso della luce fisica sull’accertamento che è un’onda elettromagnetica in propagazione nel vuoto, ma restando in principio e de facto indifferente a tutto quanto l’idea della luce ha contato e pesato in senso etico e spirituale. E per ‘spirituale’ indipendentemente dalla credenza religiosa, intendo il piano di apertura esperienziale a ciò che phos, lux, prakash, osal gyi sems, e ming e guan nel pensiero cinese, hanno contato nella costruzione degli edifici intellettuali rispettivamente greco, latino, indiano, tibetano e cinese.

Come allora resuscitare i poteri orientanti e consolanti della luce nel profondo di noi stessi? Da esseri senzienti e pensanti quali siamo non possiamo esimerci dal riconoscere nel commercium lucis, l’àncora alla quale aggrapparci per reggere la finitudine. Filosofi di ogni tempo e latitudine hanno propiziato per noi l’aggancio a quest’àncora, facendolo però in due modi di cui solo il secondo è quello valido come precisò Henri Bergson nella Introduzione alla metafisica: c’è un conoscere che accosta il proprio oggetto girandovi attorno, descrivendolo dall’esterno, e un conoscere che lo penetra a fondo per quanto è dato di fare alla mente pensante. Senza questa penetrazione – ritenne Bergson – la capacità di rispondere a domande cogenti – e il commercium lucis è una di esse – si restringe fino a sparire.

Se le scienze, le tecnologie che tanto influenzano le nostre vite, sostengono falsamente di essere ‘neutrali’, la filosofia quando non ignora il mutuo scambio, il commercium delle risorse integrali dell’essere umano e vi si addentra nel profondo come ha invitato a fare Bergson, si fa veicolo della mite accettazione del limite nella tensione ardente all’illimitato. Tutte le civiltà del continente eurasiatico dalla Grecia alla Cina, hanno scrutato odisseicamente la natura e gli effetti del commercium, e solo ampliando lo sguardo al plurimillenario retaggio intellettuale del continente Eurasia, ci è dato maturarci come cittadini di una terra e un cielo comuni.

Perché ha senso parlare di Eurasia? I motivi sono sia geografici sia operativamente intellettuali. Sul piano geografico si definisce Eurasia (un termine coniato in Russia sulla fine dell'Ottocento), l’immenso territorio unitario lambito dall’oceano Atlantico all’estremo Occidente (le coste portoghesi) e l’oceano Pacifico all’altro estremo (le coste cinesi). Tuttavia questa unità non è solo geografica, tocca infatti le vie di conoscenza che nel corso dei millenni si sono praticate in Eurasia su tre prerogative egualmente condivise: la costruzione di un lessico concettuale, di una struttura dialettica e di uno sterminato corpo di testi. Ovunque ci si volga dal Mediterraneo all’Europa continentale, alla Russia, ai Balcani, al Vicino Oriente, Israele, Turchia, Iraq, Iran, India, Tibet, Mongolia, Tailandia, Birmania, Indonesia, Vietnam, Corea, Cina, Giappone, l’evidenza storica mostra che è stata la presenza comune di queste tre prerogative a dar luogo a quell’inconfondibile campo di indagine sulla realtà fisica e oltrefisica in cui si riconosce la filosofia. La frase di Leibniz: Commercia inquam doctrinae et mutuae lucis invita a situare la questione nel vasto campo della filosofia eurasiatica.

Ma prima di accostare la tesi ‘pluralista’ di Leibniz, vale la pena citare un caso storico esemplare di ostracismo al mutuo scambio della luce del pensiero, occorso nel XVII secolo nell’India dominata dall’impero islamico Moghul. Si tratta del destino tragico del principe persiano Dara Šikoh, pronipote del sovrano Akbar (1556-1605). Uomo di forte tempra spirituale, associato alla trafila sufi della Qadiryya. Dara intrattiene un fitto scambio con pandit indiani, studia il sanscrito e si cimenta nella traduzione di cinquanta Upanişad che commenta nell’opera Sirr-i akbar *(Il segreto dei segreti*) in una chiave di pur specchiata fedeltà al monoteismo della propria fede. In un passo afferma:

Così come l’uomo è un individuo unico nonostante la varietà e la pluralità dei suoi organi e membra, e non diviene molteplice in virtù di tale pluralità, allo stesso modo l’essenza divina è sovranamente unica né diventa molteplice in virtù delle sue differenti determinazioni.

La leale sottomissione al dogma islamico dell’unicità di Dio conduce Dara a interpretare i testi vedici e le stesse Upanişad come libri rivelati al pari del Corano. Ciò però non basta a fugare da lui il sospetto di apostasia mentre dà alla luce la sua ultima opera: Majjma’ al- Bahrain (La congiunzione dei due oceani). La condanna di Dara è irrevocabile. Perseguitato dal fratello Awrangzeb che si autoproclamerà sovrano usurpando la primogenitura di Dara, egli vive i suoi ultimi giorni in fuga, e a Delhi il 19 agosto del 1659 è tratto a morte. La “congiunzione dei due oceani” alla quale aveva orientato il suo cammino intellettuale e spirituale resterà l’anelito di un commercium lucis che i feroci guardiani dell’ortodossia religiosa e della ragione di Stato Moghul non poterono tollerare.

Se il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) rimase folgorato dalla lettura delle prime cinquanta Upanişad costate la vita al pio persiano Dara Šikoh non appena l’erudito francese Jacinthe Anquetil Duperron (1731-1805) ne volse il testo dal persiano in latino col titolo Oupnekhat (una contraffazione del termine sanscrito Upanişad), si crearono le condizioni in Europa per innescare il fenomeno della “rinascenza orientale”, via via che i grandi classici della filosofia indiana venivano conosciuti dai pensatori europei.

Un secolo prima di Schopenhauer, un altro grande dotto tedesco si era aperto al commercium col pensiero cinese accostando l’unica fonte di informazione disponibile in Europa corrispondendo coi più colti tra i missionari impegnati, a partire dal fondatore delle Missioni in Levante, Matteo Ricci, a convertire al cristianesimo membri della già allora sterminata società del “Regno di Mezzo”. Goffredo Guglielmo von Leibniz (1642-1714), pensatore torrenziale di scritti di metafisica, matematica, logica, ontologia, teorizzatore dell’”armonia prestabilita” in funzione del principio di ragione sufficiente, non poté certo percorrere l’Eurasia per l’intera lunghezza a piedi o a cavallo fino a raggiungere di persona la Cina. A Roma nel 1689 incontra il gesuita e matematico Padre Claudio Filippo Grimaldi, temporaneamente in Italia come inviato nelle corti europee dell’Imperatore Kangxi e pone a Grimaldi molte domande sui costumi cinesi in presenza del non ancora sacerdote gesuita Giovanni Laureati in partenza per quella terra (sarebbe poi morto a Macao nel 1727).

Colpito dalla sua determinazione a intraprendere la missione verso le Indie orientali, Leibniz il 12 novembre 1689 gli invia una lettera affettuosa, in cui gli manifesta tutto il consenso per la sua forza d’animo. Scrive: «Ti esorto in nome di tutti e ti imploro di ricordarti che ti è stato affidato un grande compito: promuovere commerci tra due mondi immensamente distanti. Commerci, voglio dire, di cultura e di luce reciproca […]. Sono certamente molti i segreti della natura e della conoscenza che si nascondono in Cina, inesplorati per noi; ed è lecito e giusto che siano scambiati i tanti saperi che voi portate là […]. E se mi stimerai degno di qualche notizia sul tuo arrivo… in quelle terre, se permetterai che ce ne venga qualche frutto, mi farai molto felice…. Addio».

Leibniz intreccia da allora una fitta corrispondenza coi Padri Gesuiti, Domenicani, Francescani e Protestanti. E nei Novissima Sinica, compilati attorno ai cinquant’anni (1697-1799), scrive: «Ritengo un piano singolare del destino che l’attitudine al raffinamento della natura umana venga coltivata ai due estremi del Continente: Europa e Cina».

Leibniz passa in rassegna i campi in cui i Cinesi eccellono e invece sono carenti rispetto agli Europei. Nelle attività pratiche, nelle arti manuali, nell’organizzazione della vita civile sulla scorta di saldi principi etici sono eccellenti, mentre c’è debolezza nelle discipline astratte: logica, metafisica, ontologia, in particolare la geometria, la prima tra le arti impartita dal grande Platone. Piuttosto i Cinesi sono abilissimi nell’aver costruito un modus vivendi collettivo affidato a una teologia naturale priva di rivelazione divina in quanto il Grande Cielo, Taiji, manifesta se stesso nella dinamica della realtà universale, grazie all’interconnessione perpetua delle forze Yang e Yin.

Yang è la forza attiva, virile, luminosa, Yin è la forza ricettiva, femminile, fasciata d’ombra, amministrate mutualmente da un principio di ragione sovrano, Li, nel quale Leibniz ravvisò la causa dell’“armonia prestabilita” in Cielo e in Terra.

Le Osservazioni sui riti e la religione dei Cinesi risale al 1708 e prende spunto da un articolo pubblicato nel Journal des Savants a Parigi dell’11 aprile 1701. Vi si sostiene che l’unica entità riconoscibile come ‘religiosa’ è appunto il Grande Cielo, Taiji, al quale è intrinseco il Criterio (Li) che regola sulla Terra il mutuo scambio Yin-Yang nutrito dal Qi. Nei Principes de la Nature et de la Grâce fondés en raison, e nei Principes de la Philosophie, la sua ultima opera nota universalmente come Monadologia, Leibniz ci ha lasciato un edificio intellettuale in cui il commercium tra il Logos e la Grazia sfocia in una visione onnicomprensiva della realtà fisica e metafisica.

Può essere ora opportuno un accenno ai lemmi per “luce” nei significati tratti dal classico taoista attribuito a Laozi (VI-V secolo a.C.) Daodejing (Il Libro della Via e della virtù). Com’è noto la lingua cinese appartenente alla famiglia linguistica sino-tibetana non è alfabetica ma tonale e ideografica e i suoi caratteri, kanji, derivano da pittogrammi arcaici nei quali si ravvisa la concretezza con cui la mente cinese pensa e vede le cose. Nel caso di “luce” gli ideogrammi sono: ming e guān. E sia l’uno che l’altro incorporano l’idea del commercium tra la luce in senso naturale-cosmico e quello attinente alla vita umana nel contesto della società civile.

Ming deriva dai pittogrammi che rappresentavano il sole e la luna, stabilizzati nell’ideogramma che contiene l’elemento grafico per il sole a sinistra e la luna a destra. Niente di più concreto: il giorno e la notte sono illuminati rispettivamente dagli astri sole e luna. I pittogrammi arcaici relativi a guān riproducevano un essere umano stilizzato sorreggente una fonte luminosa, probabilmente una fiamma emessa da torce. In ming si riconosce una identità della luce sia cosmica che naturale. In guān la luce scende per così dire a terra tra i viventi: perché una società civile prosperi nell’ordine e nella tranquillità operosa occorre una luce costante. Le due prospettive, naturale e civile ‘commerciano’ tra loro senza frattura giacché le cose sono come sono e se proprio si vuole risalire a un’origine non creata, questa sarà il vuoto cosmico inteso dai Cinesi agli antipodi del dubbio del Giobbe biblico al quale per tanti motivi si è ispirato il nichilismo occidentale moderno. Un paio di passi tratti dal Daodejing illustrano con chiarezza la visione cosmica e terrena che tanto intrigò Leibniz pluralista ante litteram:

Una cosa, prima di chiudersi, si apre/ Prima di declinare, si rafforza/Prima di venire distrutta/ conosce lo sbocciare/ prima di essere priva, pienamente riceve (c.16).

Il Dao ha la sua costanza nel non-agire/Eppure per suo tramite tutto si compie/ Se a questo si attenessero principi e sovrani/I diecimila esseri da sé si trasformerebbero […] /Il senza-desiderio si attinge tramite la quiete/E il mondo allora si determina da sé (c.37).

Il Dao è vuoto/Si ha un bel riempirlo, e mai trabocca/Da questo senza fondo, i diecimila esseri traggono la loro origine […] / Di chi è figlio? Lo ignoro/ A quanto credo, esisteva ancor prima del Sovrano dall’alto (c.4).