La settecentesca Cittadella, “luogo del cuore” più votato nella 6ª edizione del censimento FAI, il Marengo Museum dedicato alla celebre battaglia napoleonica, il museo del Cappello Borsalino, il novecentesco Palazzo delle Poste e Telegrafo, l’avveniristico ponte sul Tanaro progettato da Richard Meier, di beni da visitare ad Alessandria ce ne sono parecchi, ma dell’età medievale, almeno apparentemente, c’è ben poco.

Il sobrio ed elegante paesaggio urbano, ricco di sontuose residenze del ‘700 e ‘800, sembra privilegiare altri tempi, altri modelli stilistici. Le diverse decostruzioni e ricomposizioni, compiute soprattutto negli ultimi due secoli, hanno reso irriconoscibile l’identità medievale cittadina. Quello di Alessandria è un medioevo celato in un mosaico di colpi d’occhio, che fluttuano tra presente e passato, in un continuo gioco di rimandi tra personaggi reali e immaginari, visioni sopite e metamorfosi ambigue.

Ai turisti e agli stessi cittadini il Medioevo è restituito in inaspettati scorci architettonici, affreschi e dipinti custoditi in prestigiosi edifici, statue e arredi liturgici che affollano i luoghi di culto. A finanziare queste opere d’arte furono famiglie di alto lignaggio i cui cognomi danno nome a vie e palazzi: Cuttica, Trotti, Ghilini, Inviziati, e vari ordini religiosi, portatori ciascuno di una distinta spiritualità e, tramite la predicazione, di un incisivo rapporto con i fedeli.

Iniziamo dalla singolare nascita della città, rivelata in frammenti documentari. Creata nel 1168 alla confluenza di Tanaro, Bormida e Po, Alessandria era una fondazione illegale. Alcuna autorizzazione ne aveva legalizzato l’erezione, ma l’arbitraria occupazione di terre feudali da parte di secundi milites e populares, in opposizione ai feudatari maggiori e all’Impero.

L’area su cui si sviluppava, abbracciava le curtis di Rovereto e Bergoglio e le terre allo stato brado della Palea. Al suo popolamento concorsero gli abitanti delle corti di Rovereto, Bergoglio, Marengo e Gamondio. Dei quattro loca, oggi mascherati in Spalto Marengo, Spalto Gamondio, Spalto Rovereto e Spalto Borgoglio, ad indicare con il termine generico di spalto un muro o una massa di terra fortificata a difesa del cammino di ronda, Rovereto apparteneva alla diocesi di Pavia, Bergoglio a quella di Milano, Gamondio e Marengo a quella di Tortona.

Di conseguenza una delle prime necessità che gli alessandrini si posero, volendo affermare la propria esistenza giuridica di fronte all’Impero e alle città limitrofe, fu la costruzione di una plebs civitas, che servisse come forza coagulante delle componenti civili ed ecclesiastiche, al di sopra di esse e delle singole tradizioni storiche. Fu così che nel 1170 fu innalzata ex novo l’ecclesia maior, la principale del nucleo demico, provvista dei diritti che le competevano e pienamente inserita nel secolare ordinamento pievano.

Dedicata a San Pietro occupava il tratto sud-orientale della spianata centrale, la Platea Major (l’odierna piazza della Libertà), attorno a cui gravitavano tutti i quartieri.
Nel 1175, quando papa Alessandro III eresse la diocesi di Alessandria, assunse dignità di cattedrale. Tale atto sconvolse la plurisecolare storia ecclesiastica locale, con inevitabili e dirette ripercussioni sull’assetto religioso, economico e sociale. Con la civitas nova, nacque anche un’innovativa tipologia di diocesi, rispondente ai tempi moderni, non più fondata sulle pievi, ma sulle parrocchie.

In passato giunti nella Piazza Maggiore i viaggiatori si trovavano dinnanzi pure il broletto che, citato nelle fonti d’archivio come Palatium Vetus, era incardinato a nord su un’espansione di borgo Rovereto e a sud-est sui quartieri di Gamondio e Marengo. Collocato in posizione pressoché affrontata al campanile della cattedrale, testimoniava la compenetrazione tra potere temporale e potere spirituale.

La struttura del palazzetto, inaspettatamente ritrovata all’interno dell’ottocentesca Caserma Maggi, sino a qualche decennio fa adibita a distretto militare, è stata restaurata dall’architetto Gae Aulenti ed ospita la sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Simbolo dell’autonomia comunale, il Palatium Vetus condivideva un modello architettonico diffuso in Italia, con il piano terra aperto a portico per consentire la presenza dei cittadini e l’amministrazione della giustizia e il piano superiore occupato da una sala per il Consiglio Generale.

Trasformato più volte nelle forme e nelle funzioni, col tempo il monumento ha subito un progressivo oblio, ma rimossi gli intonaci e demoliti i tamponamenti, sono riapparsi vasti ambienti sovrapposti, scanditi da sistemi di pilastri e volte.

L’identificazione “laica” dell’auctoritas si rivela nei brani di decorazioni, stemmi e pitture, che offrono un esclusivo viaggio in quella che doveva essere Alessandria durante la stagione dei liberi Comuni. Nelle sale del palazzo sono state prese decisioni di grande importanza: la rottura dell’assedio imposto da Federico Barbarossa, la sconfitta delle truppe imperiali, il passaggio alla protezione dei Visconti, l’entrata nel Ducato di Milano.

Se la sorte ha restituito alla città uno dei più rilevanti complessi civili, il destino non è stato altrettanto magnanimo con la cattedrale che, ristrutturata in stile gotico alla fine del ‘200, fu abbattuta dal regime francese nel 1803 per far posto alla Piazza d’Armi.

La sua presenza sopravvive in un telamone, scolpito da un lapicida lombardo alla fine del XII secolo(?), murato nel 1815 nello spigolo esterno nord-occidentale dell’attuale duomo, integrato nella precedente chiesa di San Marco e consacrato nel 1810. Per consuetudine la statua raffigura Gagliaudo Aulari. Il pastore e produttore di formaggi che, immortalato dallo scrittore Umberto Eco nel romanzo Baudolino, nel 1174 salvò la città dall’accerchiamento del Barbarossa. In realtà il simulacro, piuttosto che il protagonista dell’epos locale, rappresenterebbe un Atlante gravato dal peso della terra, qui giustamente disegnata appiattita.

Provengono dalla cattedrale anche un meraviglioso capitello con fantasiose figurazioni zoomorfe e un bassorilievo (XII-XIII sec.), che richiama il tema biblico di Sansone che smascella il leone, entrambi in mostra nelle Sale d’Arte comunali.

Invece entrando nel duomo si ammirano due manufatti, oggetto di profonda devozione: un Crocifisso policromo del ‘400 e una Madonna della Salve databile ante 1489, attribuita all’artista Baldino da Surso (Pavia, ...-1478).

Interessante pure il coperchio del sepolcro, in marmo di Candoglia, del vescovo di Alessandria Marco de’ Capitaneis (1458-1478). A scolpirlo in altorilievo fu Antonio Solari, architetto e scultore sforzesco, attivo nel cantiere del Duomo di Milano nella seconda metà del ‘400, chiamato a Mosca (1490-1493) da Ivan III il Grande.

Alessandria è città di pietre e fantasia. Nel cuore del centro storico si erge la chiesa di Santa Maria di Castello. Luogo dell’immaginario medievale collettivo, prima ancora che reale, essa è l’erede dell’ecclesia Sancte Marie de Roboreto.

Elevata nel punto in cui si trovava la pieve della corte di Roboreto, assunse tale denominazione nel 1215, quando i canonici dell’Ordine di Santa Croce di Mortara, che risiedevano nell’annesso convento, comprarono dal Comune di Porta Rovereto (componente semi-autonoma della nuova Alexandria civitas) il castrum di Porta Rovereto. L’acquisto fornì ai religiosi l’occasione per ingrandire la fabbrica che, ritenuta ormai insufficiente ad accogliere l’afflusso di devoti per le mutate condizioni abitative del borgo incastellato, fu ricostruita in stile romanico-gotico.

La primitiva architettura preromanica monoabsidata, strettamente collegata all’abitato di Rovereto (fine VIII sec.) e alla successiva formazione della curtis (tardo IX sec.), per la planimetria e la struttura muraria in corsi a spina di pesce, si data all’ VIII-IX secolo. La chiesa, ingrandita più volte e ampliata nel tardo XII secolo con l’estensione della zona presbiteriale, abbellita da un mosaico pavimentale, conserva nell’area archeologica resti del tappeto musivo, dell’abside preromanica, della prima fase romanica (seconda metà dell’XI secolo) e della seconda fase romanica (tardo XII secolo), scoperti durante scavi del 1971.

L’aspetto neogotico dell’esterno, a firma di Venanzio Guerci, risale alla prima metà del ‘900.
L’interno, suddiviso in tre navate su cui affacciano le cappelle, si riferisce a un cantiere cominciato nel 1476 dai canonici Lateranensi. Sorprendentemente luminoso, riflette una dimensione leggera e aerea, in perfetta sintonia con il Crocifisso, intagliato e dipinto (1460-1480) dalla bottega di Baldino da Surso, sospeso all’arco trionfale del presbiterio.

Catturano l’attenzione dei fedeli l’affresco della Madonna del parto, residua traccia di un programma decorativo commissionato nel ‘500 dai canonici Lateranensi, il quattrocentesco altorilievo della Beata Vergine della Salve, protettrice della diocesi di Alessandria, e un prezioso gruppo statuario in terracotta policroma, risalente al terzo decennio del XVI secolo,

riconducibile alla cultura figurativa milanese. Se l’interno di Santa Maria di Castello può essere definito uno spazio in dilatazione, al contrario quello in stile gotico lombardo di stampo solariano della vicina chiesa di Santa Maria del Carmine, appare ancorato al terreno.

Il tempio, innalzato nella seconda metà del ‘400 dai Carmelitani, con il sostegno finanziario di famiglie gentilizie del posto, è caratterizzato dall’aspetto neomedievaleggiante della facciata, risultato di un radicale rifacimento degli anni ‘20 del ‘900 e dall’ l’armonioso interno, ove, seminascosta tra pilastri e costoloni in mattoni a vista, è ospitata la Pala di Santa Lucia. Un trittico su tavola del pittore Agostino Bombelli, che originario di Valenza e noto dal 1510 al 1545, ritrae le Sante Lucia con un donatore, Chiara e Barbara.

Sul finire del ‘300 il capitano di milizie Andreino Trotti, esponente di un’eminente stirpe cavalleresca alessandrina, consolidatasi attraverso una bisecolare carriera in ambito comunale e cittadino, entrò in possesso di una torre, innalzata nei primi del ‘200 poco a sud di Alessandria. Decise di elevare il torrione di un piano e ne commissionò il decoro a un pittore lombardo, che eseguì un favoloso ciclo a fresco, con scene tratte dal poema epico Lancelot du Lac.

Gli affreschi, alessandrini di nascita, ma permeati da un affascinante internazionalismo, furono ritrovati nel 1971 nella cascina Torre Pio V a Frugarolo. Strappati e restaurati sono ora esposti nelle Sale d’Arte. Chiamati Stanze di Artù, sono ritenuti il più antico esempio superstite di “camere di Lancillotto”, ossia di sale che, ornate con storie di avventure e amori dell’eroe arturiano, ingentilivano i castelli e le dimore nel Medioevo. Dal 1450 al 1535 la città passò nei domini sforzeschi.

Furono decenni in cui sia il legame che univa parecchi alessandrini, impegnati al servizio del duca nei ranghi militari, nell’amministrazione e nella gestione di corte, sia il file rouge che legava Milano a questa terra sul confine sud-occidentale dello Stato, si dimostrarono ben solidi. Anzi, il duca di Milano considerò Alessandria in tutta la sua importanza strategica.

Il buon funzionamento di mura e vie costituì la preoccupazione prioritaria dei funzionari degli Sforza. Il cantiere pubblico più imponente dell’Alessandria sforzesca fu sicuramente la ricostruzione in pietra del ponte sul Tanaro; quello privato l’edificazione del palazzo nobiliare del “richo merchadante” Nicolò Inviziati. Eretta negli ultimi vent’anni del ‘400 la residenza, ora sede del vescovato, preserva uno dei più ragguardevoli soffitti lignei a tavolette dipinte dell’Italia settentrionale. Composto da 298 riquadri, tra cui compare l’insegna araldica del duca Gian Galeazzo Sforza (1469-1494), in carica all’epoca dell’esecuzione del fabbricato, con la sua ricchezza di ritratti, stemmi e animali, documenta la passione per il gusto del bello e la relazione anche culturale tra la famiglia Inviziati e la corte ducale milanese.