Quella che vi presento oggi è una sfida, una sfida diretta ai tecnici del verso e ai teorici dei meccanismi compositivi. Lanciarla ai poeti veri credo sarebbe impossibile: non si abbasserebbero a tanto né avrebbe senso che lo facessero. Al massimo potrebbero parteciparvi fuori concorso.

Ci fu un tempo in cui poeti (pre)romantici tentarono di definirsi sfruttando la collaudata forma chiusa del sonetto. Definizioni di sé talvolta eroiche a discapito di una realtà ostile o non in grado di comprenderli. Quando si cerca in rete la voce ‘autoritratto’ unita a ‘sonetto’ salta all’occhio solo la tripletta Alfieri/Foscolo/Manzoni; pare, vedendo i risultati del web, che null’altro degno di nota sia stato fatto a parte i loro esperimenti di autodescrizione. Ecco perché l’idea della sfida: una gara semipoetica per riprendere confidenza con il verso, con gli accenti e con le regole, importantissime da conoscersi soprattutto qualora le si voglia infrangere, come talvolta faccio io. Le nuove generazioni non sono più abituate a lavorare di cesello con le parole perché pochi sono gli insegnanti che li piegano alla scrittura di un endecasillabo; e non sto parlando di licei classici: questo sarebbe un lavoro da far fare soprattutto nelle scuole secondarie di primo grado, quando l’adolescenza sta trascinando definitivamente i ragazzi verso la scrittura asettica del mondo social.

Tentare di far ‘quadrare’ le parole in un verso è un esercizio mentale importante, in grado di sviluppare fantasia e padronanza linguistica; un po’ come quello di riassumere o riscrivere un testo con i lipogrammi. E dunque perché non tentare con un argomento che può accomunare tutti come l’autoritratto? Oltretutto l’arte della parola permette di autoritrarsi così come quella visiva; dagli autoscatti di Man Ray ai selvaggi selfie, un briciolo di aura rimane anche nelle infinite riproduzioni che sommergono ormai il mondo digitalizzato. Per quanto inutile e superficiale possa essere, il volersi ritrarre e rivedere denuncia una volontà di messa in scena, una scelta di posa e di sfondi che descrive comunque una personalità. Quello dell’autoritratto in pittura è un gioco a cui hanno preso parte un po’ tutti: i grandi maestri, talvolta, lo hanno trasformato in capolavoro facendo di loro stessi un’opera d’arte e così capita pure per la poesia.

Qui si vuole continuare quel gioco e, per iniziare, ho duplicato l’esercizio in modalità (ovviamente) ‘a minore’ rispetto ai tre grandi, ma con l’ausilio di una musica che fa il verso al bassista americano MonoNeon. Con lo stesso egocentrismo degli altri ma, questa volta, senza più romanticismo di torno.

Autoritratto I

Alto, magro, veloce nell’agire,
affilato nel volto, lento al riso;
regale il portamento, occhi quai pire
saettanti accigliati sempre. Liso

il polpastrello pel folle scalfire
i martellanti avori con deciso
battere quotidiano. Di dormire
voglioso per obliar il mondo inviso.

Questo son io allo specchio. Voglio renderti
però, oh lettore, edotto di pattuita
tra me e me volontà che qui si scopre:

in spirto fia immortale e in caduche opre.
Nulla temo fuorchè la cruda vita.
Morte, fuggi lontano: vengo a prenderti.

Autoritratto II

Ribelle il mosso crine, giammai piego
alla volgare moda, guato il lago
infinito del tempo mio con vago
miope occhio. Muliebri non lego

monili al collo ma con fede appago
la sinistra falange. Quando nego
per sempre tolgo; tolgo quando prego
la logica agli dei certezze. Ago

sottile fitto in carne e dura spina
non godono il dolore come il dire
crudele che mi è proprio quando taglia

l’ipocrita eufemismo. La battaglia
perduta contro il dubbio mi fa dire:
non bramo gloria ma oblio e testa china.