Vedo poca differenza tra l'angolo di una strada e la giungla più impervia. Pressoché la stessa che c'è tra un cassetto ed una stanza buia, visti dall’interno. Impossibili da distinguere fino a che qualcuno non apre la porta.

Questa e tutta una serie di altre cose mi capita di pensare, soprattutto adesso, in un momento per molti morto, ma per me di assoluta vita e vivacità intellettuale. Camminare non è di certo un’attività che mi piace definire un hobby, come fanno certe persone, che amano dire che gli piace camminare. Cosa tollerabile certo, se stiamo parlando del Trentino o di una spiaggia spersa. Invece, muovendosi su di una strada, una classica strada s’intende, formata da marciapiede, alberi sul bordo, corsia, strisce longitudinali bianche, corsia, altri alberi bordo strada e marciapiede. Ecco, se si parla di una di queste proprio non lo sopporto. Si vede che non hanno mai messo un paio di tacchi, che anche se piccoli, sanno solo infastidire e stridere, graffiare quella esperienza che loro definirebbero “una piacevole passeggiata defaticante post cena”.

Un’altra cosa che non mi piace del camminare è la costante accusa visiva che ricevo da ogni superficie lucida, vedersi continuamente riflessa, mi fa riflettere sulla mia costante condizione di scompiglio e sul come avrei dovuto e potuto migliorarla. I capelli non stanno mai al loro posto, neanche farli corti è servito a qualcosa. Certo è vero, che soprattutto la sera, quando forse dovrei sentirmi meno sicura, la strada ha un che di affascinante. Meglio ancora se ha piovuto da poco e se le stelle ancora rade spuntano tra i ricordi delle nuvole chiare di qualche ora prima. Non esiste un fresco migliore di quello dopo che ha piovuto, soprattutto se lo incontri di colpo, dopo un appuntamento al bar andato bene, con quel collega che ti guardava da tanto.

Ecco, la strada mi piace per un altro dettaglio: ha degli angoli. Tutte le strade prima o poi vanno a scontrarsi con altre. Questo fatto urbanistico o naturale, dipende dall’angolo da cui lo si guarda, non viene percepito nella giusta maniera se non camminando. Andando in motorino da un punto A a uno B, tutta questa serpentina di svolte, semafori e passanti incauti sembra quasi un percorso unico e a sé stante. Completo nel suo esistere come connessione sicura e battuta, che a scanso di fattori esterni disturbanti non dovrebbe mai avere sorprese.

Infatti, è normale memorizzare tutta una serie di percorsi per arrivare ai propri punti di interesse e, se ci fosse il bisogno di raggiungerne altri, è normale andare avanti per gemmazione verso i punti conosciuti, tentando di fare meno deviazioni possibile e usando sempre più le strade usuali, arrivando così ad intessere una rete fitta e abitudinaria di strade che nella sua solo apparante vastità racchiude il nostro mondo motorio, che rimane estraneo a tutto quello che neanche ci poniamo l’interrogativo di esplorare. Questo modo di vivere la strada, a me personalmente fa sentire sicura, però elimina un aspetto quasi mistico, che stasera, pensando alla tua bella camicia e allo strano drink che ci siamo bevuti ho davvero voglia di vivere. Gli angoli se visti da distanza e raggiunti piano nascondono una meravigliosa possibilità: quella di incontrarti.

Certo, la probabilità è piuttosto bassa, soprattutto se consideriamo quella composta di incontrarti ancora e ancora e ancora, angolo dopo angolo, in un eterno saluto in cui la sorpresa, la felicità e il piacevole imbarazzo sono sempre genuini. A pensarci bene, non vedo ancora il punto in cui questa via, che ho preso a caso usando la sagoma della torre Rai sullo sfondo come bussola, si incrocerà con un’altra. Quindi, considerando che dopo il bar abbiamo preso due direzioni opposte, se rallento ti posso dare tutto il tempo per fare una serie di svolte identiche tra le labirintiche vie in modo da arrivare puntuale al nostro possibile rendez-vous in un punto a me ancora ignoto. Solo sapere questo mi permette di trovare un po’ più di piacere nel camminare.

È vero, che certamente non è la cosa migliore che potrebbe capitarmi. Magari, un distinto signore passato poco prima, potrebbe perdere dalle tasche una cinquanta euro, anche se ammetto che non sarebbe molto interessante, però potrebbero non essere soldi, ma una chiave assieme allo scontrino di una pasticceria, scatenando così un caccia all’uomo che potrebbe tenermi impegnata per i prossimi giorni. Ammetto che spesso si trovano cose più banali, come una rampa per disabili, se c’è un portone due che parlano o si baciano, una cacca di cane non raccolta o una persona in bici, che tentando di schivare la nostra svolta decisa ci passa su un piede. Tuttavia, non facendosi scoraggiare e considerando che ancora non si intravede l’angolo di destinazione, si estendono tutta una serie di potenziali scene che si possono facilmente aprire sul palcoscenico del possibile.

Ho sempre desiderato vedere un leone. Da quando mio padre da piccola mi raccontava del suo volontariato in Sud Africa, dove per un parco naturale aiutava nei controlli antibracconaggio. La fierezza di questi animali e la loro pericolosità non sono mai stati un problema per una ragazzina come me, traviata dal Re Leone e dai pupazzi che mi compravano i miei dove la criniera era soltanto un pelo soffice utile per affondare la faccia prima di dormire.

Nella via, tra un lampione e l’altro, banner pubblicitari sbiaditi, illuminati dal tiepido blu di una volante, mostrano le immagini di un cilindro, una frusta e una ballerina magnifica con quelle tute brillanti, che avrei messo se avessi continuato danza senza arrendermi alla goffaggine propria del mio metro e settantacinque. Chissà se quella volante sta andando da un direttore confuso e preoccupato davanti alla gabbia dei leoni aperta nel retro dei tendoni. Mentre un leone, ormai sparito da ore riesce per una serie di distrazioni, menefreghismo civico o semplice fortuna a passare tra bar in chiusura con camerieri indaffarati a pulire, parchi bui con lampioni rotti e vie strette senza creare alcun allarmismo. Una serie di svincoli e obliqui, dettati da suoni e odori che lo fanno vagare proprio verso il prossimo angolo, dove tu mi stai aspettando.

Se arrivata vedessi solo il Leone mi chiederei se ti avesse mangiato, o se fossi scappato. Se invece vedessi solo te chissà se mi racconteresti che lo hai coraggiosamente messo in fuga, bugia a cui crederei, nonostante il tradimento del sudore e della pelle lucida. Segni di una distanza corsa non indifferente. Sono sicura che la sorpresa del vederci e l’emozione, ci farebbero dimenticare del leone a due vie di distanza, che indisturbato sta continuando il suo percorso. Ci terremmo per mano così distratti e avvicinati del tuo batticuore, confuso tra lo spavento leonino e amoroso, che non noteremmo la bella ballerina stretta in una giacca lunga e scura, che cammina chiedendosi se la scappatella, per lei insignificante, fatta quel pomeriggio nell’hotel infondo alla via, non sia ingiusta verso il povero e innamorato direttore. Ormai sale l’umido serale che scazzotta con il calore, che ancora mi lasciano questi pensieri coadiuvati dal vino da te scelto con così tanta cura. La torre è un po’ più vicina e tra una macchina e l’altra vedo l’angolo di sbieco.

Ti penso e penso al Leone, al direttore, alla ballerina e al poliziotto che ancora non sa che gli aspetta il caso della sua carriera e mi sento che sale l’ubriachezza da tutta questa vita. Ad ogni passo perso nel mare di passi potenziali mi si scalda il petto e vedo tutto distante, intricato in liberi sensi e direzioni che non hanno limiti se non la propria libertà di intersecarci e renderci incidenti. L’angolo è appena a due passi e mi sento cadere, il tacco mi sbilancia, e le orecchie sono piene del tacco fino della ballerina, del ruggito del Leone e delle parole che ancora non mi hai detto. Ancora un poco e potrò intravedere l’altra via. Mi fermo, guardo le stelle, chiudo gli occhi, spingo sul tacchetto e giro. Chissà se è proprio questo l’angolo o è il prossimo.