E allora ho fatto quello che so fare meglio. Sfilati anello, bracciali, collana, orecchini e ho continuato sino a lasciare, solo me. E allora ho fatto quello che so fare meglio.

Lui è partito e ho schiacciato in questo arrivederci tutto il resto, seduta su una valigia colma, ho lasciato cadere i capelli avanti, mentre piegata ho cercato chiusura. Gambe a penzoloni piovono come macigni. Pretesto, paravento. Nessuno saprà perché piango. Abuso di una causa riconducibile, comprimo tutto lì, in quel saluto e mi proteggo, in un Messico lontano. Chiamo un amico comune che non risponde. Cammino con Billie. Mi scrive qualcuno, leggo, e poi faccio quello che so fare meglio. Resto sola. Trovo un posto per me. Irraggiungibile. Lascio il tempo a un’altra me.

Mi rendo conto che sono piena di accessori inutili. Oggetti per il mondo. Guardano in cerca di indizi. E se fossimo nudi, sarebbero persi.

In ufficio assisto all’ennesima lezione su profitto, umiliazioni senza senso, con un vestito stretto, scomodo, di spesso imbarazzo. Guardo giù per non guardare su, se non a tratti. Vorrei non partecipare, trascinata. Di pietra. Divento di pietra. Proprio io che sorrido alla gente e porto la spesa. Insegnano profitto. Carote e ragli, su terreni emotivi. Guardo un po' più in là, già la vedo che si incammina, un’altra me. Cedo il posto.

Devo salire di nuovo sulla giostra. Stringo, le stringo la mano, assegno e vado via. La lascio sola, in balia.

Lo zaino è sempre pensante. Sette e trenta, percorso al contrario. Devio per tetto. Diciannove. Quasi dodici ore quando ascolto domanda su cena e richieste. Stanca. Mi appoggio a paletto e resto ferma. Ricevo chiamata e nascondo in ciarla un contenuto. Torno strisciando a un’altra me con “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet.

In cucina, strane polpette aspettano e schiacciate senza carne giacciono su carta forno. Lui non si muove. Ne provo una, due, tre, in piedi, mi sfilo il berretto, gratto la testa, prendo una fetta di pancarrè e spalmo burro di arachidi per me e lei che passa dopo a latte e cereali. Basta raffreddore. Sta meglio. Mi lavo, infilo il pigiama, venti e cinquantacinque, lenzuolo e puzza di cane. Ho sonno. Potrei lasciarmi andare e dormire ma, la ricerca di una migliore conclusione mi trova vigile a reagire.

Sabato mattina. Dove vado? Dove la porto quest’altra me? A terra, mi concede il traino. Domenica mattina, corro. Mi fermo a comprare il pane in un posto nuovo. La signora che riceve sembra trasandata e non capisco se cordiale. Accenno un sorriso. Ecco che inizia. Quattordicesimo anniversario dalla morte del marito, condivisione e celebrazione. Una bambina ricca e generosa. Mi offre un rustico e riempie un vassoio di pizzette. Dono dice, come il vestito della comunione a orfanelli. Ricorda.

Oggi sul bus niente musica o chiacchiere. Guardo fuori. Al “non scendi?”, mi sono alzata controvoglia, mostrando un’altra me, tacitamente polemica.

Tempo. Imparo a concedermi. E allora faccio quello che so fare meglio. Scivolo euforica verso un dove che conosco e mi piace. Mraz e Caillat cantano Lucky, muovo in spazio denso, lenta. Tasto e manipolo. Faccio, disfo, rifaccio. Stimolo, cresco, mi allevo, capisco, cambio, respiro, sento, tutto. Sono in un posto caldo e ospitale. Lascio una mano attraverso i capelli e faccio quello che so fare meglio. Mi privo e incontro un’altra me.

Vorrei potermi dire come sento, potere ma, è un’altra me in cerca di denominatore, perduta tra un pendolo che oscilla, in un sensibile interattivo che non frena, allenta mai, inesorabile. Allora, lascio, mi trovo, ho paura, fuggo, di nuovo, verso un’altra me a staffetta.

Salgo sulla metro, l’altra linea, comoda. Mi siedo anche se due fermate. Scendo. Ho un’ora e un quarto di anticipo. Supero il fabbricato, sino al mare. Eccola Mergellina, pronta a consolare. Siedo, la lascio fare, il sole. Muretto, incrocio gambe. Zaino, Zip, sfilo pc, scrivo. Traffico scorre sconosciuto da tergo, e visione di ferri in armatura ricordano opportunità. Non adesso. Do spalle e continuo.

Vuoto, sento il vuoto. Mi piace. Lo tengo. Guardo l’ora e inizio l’installazione di sorrisi per il cliente. Oggi trasporto un'altra me, in condivisione. Un’altra me da presentarmi, accogliere.

Torno, dormo, mi sveglio. Traccio eye liner, stringo coda di cavallo, vesto nero e rimbomba in testa, “I tried so hard and I got so far” (In the end - Brano di Linkin Park). Alexa trasmette e penso è un'altra me. Una bulla dark che mi butta fuori. Dove mi sono nascosta stavolta?

Vado a darle il benvenuto, cercando me stessa, in variazioni sul tema di un tempo perduto.

All I know
Time is a valuable thing
Watch it fly by as the pendulum swings
Watch it count down to the end of the day
The clock ticks life away.

(In the end – Linkin Park)