Si dà l'occorrenza, tutt'altro che infrequente, di libri per così dire paralleli, ossia di libri che instaurano una relazione simbiotica con altri specifici testi e che da essi traggono sostanza. Si potrebbe citare l'esempio del Pinocchio di Giorgio Manganelli, il quale, «parassitario e autonomo» allo stesso tempo, da un lato illumina il classico di Collodi e dall'altro ne ampia a dismisura la portata; o anche L'impuro folle di Roberto Calasso, che in maniera chirurgicamente capillare disseziona le Memorie di un malato di nervi di Schreber per farne un labirintico percorso di linguaggi e discipline.

È una casistica abbastanza vasta e soprattutto multiforme, dove l'analisi dell'oggetto creato non può limitarsi mai all'oggetto reperito, ossia al solo studio delle fonti, ma deve progredire in modo obliquo e senza limiti di sorta. In questa selva di rimandi e infestazioni, dove ogni testo può generarne inconsapevolmente un altro, troviamo anche l'unicum di un libro il cui cordone ombelicale non è agganciato all'essenza tangibile di una pubblicazione ma al contenuto effimero di un manoscritto (perduto). È il caso del Messia di Stoccolma di Cynthia Ozick, un libro che, senza esserne ombra o emanazione, traccia le fantastiche ma plausibili coordinate di un altro Messia, quello di Bruno Schulz, disperso un'ottantina di anni fa e mai più recuperato.

Prima di analizzare le corrispondenze e i vincoli fra questi due romanzi, sarà bene ribattere a un possibile quesito: chi era Bruno Schulz?

Terzo e ultimo figlio di una coppia ebrea di lingua polacca, era nato nel 1892 a Drohobycz, nella Galizia orientale. Per ragioni mai del tutto definite, trascorse gran parte della propria vita in questa cittadina, dove ebbe un ruolo di insegnante presso il locale ginnasio. La sua prima forma di espressione artistica fu il disegno, ma, a partire dal 1933, con la pubblicazione del libro di racconti Sklepy cynamonowe (Le botteghe color cannella), la sua principale occupazione divenne quella letteraria. Nel 1936 si dedicò alla traduzione del Processo kafkiano, e l'anno successivo a una seconda raccolta di racconti, Sanatorium pod Klepsydrą (Il Sanatorio all'insegna della Clessidra).

Da brevi accenni contenuti nel suo epistolario sappiamo che nello stesso periodo andava lavorando anche alla stesura di un romanzo, che si sarebbe dovuto intitolare Mesjasz (Il Messia) e del quale oggi ci rimangono solo alcuni disegni e un paio di frammenti inseriti nel suo secondo libro. Verosimilmente, allo scoppio della guerra questo romanzo doveva essere forse terminato, o quanto meno in fase di revisione, ma da allora non se ne ha notizia. Nel 1941 Drohobycz venne sottoposta dai tedeschi alle persecuzioni antisemitiche e Bruno Schulz costretto a trasferirsi nel ghetto. Malgrado le insistenze degli amici, che tentavano di convincerlo alla fuga, rimase comunque all'interno della città natale; quando nel novembre del '42 si decise a procurarsi dei documenti falsi e abbandonare finalmente il paese, venne ammazzato per la strada, probabilmente a causa di una faida nazista, da un ufficiale della Gestapo.1

Tornando adesso al tema principale: in che modo il romanzo di Cynthia Ozick gravita nell'orbita di questo artista così schivo e del suo perduto manoscritto?

Il protagonista del Messia di Stoccolma è un quarantenne solitario, malinconico, con un paio di matrimoni alle spalle e un modesto impiego come critico letterario sulla pagina culturale di un quotidiano, il Morgontörn. A dire il vero, non sono le qualità professionali a difettargli, ma, a causa di un interesse quasi maniacale per le letterature mitteleuropee delle decadi passate, Lars Andemening ha un ruolo del tutto periferico all'interno del giornale; l'unico spazio che il direttore editoriale gli concede, infatti, è la rubrica del lunedì mattina, quella che – stando alle sue stesse parole – non legge mai nessuno. La sua è una vita che agli altri appare torpida, svogliata, ma pochi sanno che buona parte delle energie di Lars vengono catalizzare da un'ineludibile ossessione: le proprie origini. Sa di essere arrivato in Svezia da bambino, proveniente da un paese martoriato e in fuga dalle persecuzioni hitleriane come tanti altri ebrei polacchi; e sa che a un certo punto, per trovare un'identità nel paese che lo ospita, è stato costretto a scegliersi il nome sfogliando un dizionario. È consapevole che il suo destino è comune a quello di tantissimi profughi, e che al pari di tutti gli altri deve guadagnarsi un decoroso ubi consistam; ma sa anche qualcos'altro, anzi, la avverte quasi come una divinazione:

Lars Andemening si riteneva un’anima lasciata a mezzo: qualcuno che era stato buttato fuori strada. La sua collocazione era altrove, il suo nome se lo era inventato lui. Non aveva detto quasi a nessuno – né alle sue mogli durante tutti quegli anni, né a nessuno dei colleghi [...] – ciò che sapeva di sé: che era il figlio di un uomo il quale era stato assassinato, a cui più di quarant’anni prima, in Polonia, era stato sparato per la strada mentre il figlio era ancora nel grembo della madre. Questo sapeva, e lo teneva sepolto. V’era qualcosa di pericoloso in tutto ciò, non soltanto perché fuori della norma – fin dall’infanzia era stato ghermito da una storia innaturale – ma perché suo padre era una leggenda, un sogno; o, a essere più esatti, un seme errante lasciato dietro di sé da un cadavere. Lars non aveva mai saputo come si chiamava sua madre, ma suo padre era divenuto per lui un’idea fissa.2

Non c'è alcun documentato indizio ad avallare tale parentela. Ciononostante, Lars ha un quasi fisiologico bisogno di identità, di qualcosa che lo classifichi e gli dia il diritto di pretendere un posto sulla Terra. Questo processo non viaggia affatto su un binario prestabilito, non passa, cioè, per gli uffici dell'anagrafe – «Egli aveva la terrificante libertà di scelta dell'orfano. Poteva diventare quello che voleva; nessuno poteva proibirlo: egli poteva scegliersi la propria storia» (MS 120) –, e quindi perché non diventare il figlio indiscutibile di Bruno Schulz? Nessuno è a conoscenza di questa sua velleità tanto infondata quanto pertinace, e Lars cerca strenuamente di proteggerla da qualsiasi plausibile confutazione, si direbbe persino dalle possibilità valutative di colleghi e conoscenti. L'intima consapevolezza di questa presunta consanguineità gli è sufficiente a essere un passeggero provvisto del biglietto per la vita.

Non così introverso da non trovare il coraggio, al momento che reputa opportuno, di confidare il suo segreto. La prescelta è Heidi Eklund, una profuga tedesca che possiede e gestisce una piccola libreria: «Ci assomigliamo come due gocce d’acqua. Lo stesso naso – lo vede il mio mento come finisce a punta? E non è neanche una questione di lineamenti: c’è affinità» (MS 37). D'altronde, questa è l'unica libreria di Stoccolma in cui Lars sia finalmente riuscito a trovare le opere di Schulz in lingua originale – quel polacco che lui, pur non padroneggiandolo a dovere, reputa comunque la propria lingua madre, tanto che vorrebbe impararla alla perfezione per leggere nello stesso idioma in cui scriveva il genitore putativo.

Ma essere il figlio di Bruno Schulz non implica per lui la mera creazione di una chimerica genealogia. Lars ha bisogno di colmare anche il vuoto lasciato dal Messia, di ribadire, a sé e agli altri, ostinatamente, che il manoscritto deve essere da qualche parte, nascosto o custodito. L'esistenza del romanzo diventa allora un salvacondotto esistenziale, il modo per affermare se stesso e dichiararsi al mondo – benché si tratti di un sostegno un po' precario, che tende, come la spuria legittimità del padre, a perdersi oltre l'orizzonte delle probabilità:

Di tanto in tanto era afflitto da una pesantezza, un ispessimento dei polmoni, uno sbandamento interiore che era glutinoso come il lutto.

Nel cielo notturno, ondeggiante sulle ali del vento su in alto nella neve che scendeva, Lars vide, o intravide, il corpo di suo padre, nient'affatto uno scheletro: una apparizione incandescente, fluttuante di luce, gonfia, con la luce che tendeva la pelle di suo padre fino a renderla della più pallida trasparenza. Questo padre-pallone, emanando luminosità, si allontanò lentamente nel flusso bianco e scomparve: dapprima una macchia confusa, poi una chiazza, poi nulla (MS 63-64).

Malgrado l'assurdità di questo padre evanescente, Heidi aiuta l'uomo a recuperare lettere, documenti, fotografie, alimentandone le fissazioni e fornendo un indiretto e successivo credito all'eventualità che il Messia esista ancora. E così, in maniera non del tutto inaspettata, un giorno salta fuori un'altra figlia di Bruno Schulz, Adele, con una storia verosimile da raccontare e un manoscritto lacero, scompaginato, irresistibile:

Quei poveri fogli sciupacchiati erano numerati in modo irregolare, alcuni non avevano neppure il numero di pagina, e un vortice fluiva in un altro vortice; v'erano sequenze e conseguenze, paralleli e paradossi, comunque li si mescolassero (MS 125).

A questo punto, il romanzo di Cynthia Ozick – adesso è lecito gridarlo ai quattro venti: non un «libro parallelo», bensì un «libro satellite» – potrebbe aprirsi a qualsiasi evenienza narrativa. Tuttavia, chi si aspettasse un circostanziato resoconto del Messia rimarrebbe inevitabilmente inappagato. Che Lars cominci a decifrare il manoscritto è prevedibile, ma non che vi si getti sopra con l'impetuosità covata in tanti anni di fantasticherie, o con l'ingordigia del bulimico a cui non interessano i sapori ma la soddisfazione immediata di un bisogno.

La trama, infatti, già di per sé sfuggente, gli si sgomitola davanti con rapidità eccessiva: arida «come il deserto, da cima a fondo», è la storia di una futura Drohobycz, divenuta città di idoli in conflitto tra di loro; vi giunge, a redimerla, un Messia – sorta di groviglio informe e palpitante, privo di connotazioni immediatamente distinguibili – dal quale scaturisce poi un volatile che mette fine alle contese e agli stessi contendenti: «Gli idoli: spariti. Soltanto quel frenetico uccellino nato da un organismo chiamato il Messia, e vaghi lamenti che morivano» (MS 131). Del presunto autografo paterno Lars non è riuscito sino a qui a metabolizzare alcun frammento, a tal punto che, terminata la lettura, si sente come sgonfio dell'enfasi iniziale e frastornato, capace di afferrare, in modo vago, soltanto residue sensazioni: «Il più tenue tremore di una forza strenua... L'impronta muta di un rumore... Una lamentazione senza tregua...» (MS 135).

Dopo il tuffo nelle pagine del manoscritto, una volta guadagnata la superficie Lars sembra riemergere da un sogno dentro a un altro sogno, quello di tutta una vita. Fuori da questa doppia allucinazione non c'è più posto per il Messia, ovvero per la speranza che il libro sia sopravvissuto al predace mulinello della storia: «È finito nei campi di concentramento, insieme a chi lo conservava» (MS, 142). All'autenticità del manoscritto – e della figlia apparentemente autentica di Schulz – egli non presta più alcuna fede, nemmeno sotto le pressanti rassicurazioni del dott. Eklund, marito di Heidi e sedicente esperto di grafologia. Per Lars si tratta di una squallida macchinazione, di un imbroglio perpetrato ai suoi danni per gloria o per denaro. In ragione di ciò, o forse solo per il montare di un furore iconoclasta, ignora ogni appello e dà alle fiamme quella risma malandata apparsa all'improvviso, proprio lì a Stoccolma, proprio davanti al suo sguardo stralunato ma inaspettatamente nichilista.

L'infrangersi del sogno ha spalancato un abisso, anzi una mise en abîme in senso stretto: così come il Messia rimuove nel romanzo gli idoli che avvelenano l'aria di Drohobycz, fuori dal romanzo elimina l'idolo di Lars, il padre che questi si era autonomamente attribuito per darsi connotazioni e identità. Il figlio di Bruno Schulz, l'orfano predestinato che aveva voluto sfidare la propria condizione, non ha più un genitore, né reale né fittizio.

Eppure, anche in questa improvvisa rinuncia alle favolose architetture del suo specifico passato, permane una traccia dell'«affinità» che sembrava averlo legato da sempre a quel padre immaginario: «La funzione primordiale dello spirito», sono parole di quest'ultimo, «è il favoleggiare, è la creazione di storie […] La conoscenza altro non è che la creazione di un mito sul mondo, giacché il mito è già insito negli elementi stessi, e al di là del mito non possiamo spingerci».3

La colpa di Lars – si capisce adesso – è dunque quella di essersi spinto troppo avanti e, nel tentavo di allargare i confini della propria mitologia infantile, di aver oltrepassato i limiti del conoscibile. Nello spazio ignoto in cui si è avventurato, in quella lacuna della Grande Storia che è l'opera perduta di Bruno Schulz, ciò che trova è soltanto l'amnesia, come coloro che, nel mondo antico, erano chiamati a bere le acque dell'oblio prima di rinascere o morire.

Note

1 La vicenda della morte di Bruno Schulz è documentata e commentata, fra gli altri, all'interno del volume di Jerzy Fikowski, Regions of the Great Heresy, New York, 2003, pp. 137-38.
2 Cynthia Ozyck, Il Messia di Stoccolma, Feltrinelli, Milano, 2004, trad. Mario Materassi, cit. pp. 12-13. Le citazioni successive tratte da questo testo saranno contrassegnate con la sigla MS e il relativo numero di pagina.
3 Bruno Schulz, Lettere perdute e frammenti, Milano, Feltrinelli, 1982, cit. p. 272.