Quando i Longobardi (Uomini dalla lunga barba) elessero Papia, appellativo da cui deriva l’odierna denominazione di Pavia, capitale del Regnum Langobardorum, arricchirono la città con sontuosi palazzi, simbolo di potere e teatro di gesta, intrighi e segreti, e con innumerevoli chiese, rilucenti di mosaici, affreschi e sculture. Oggi Pavia, dimenticati i fasti altomedievali, è un tranquillo capoluogo di provincia in cui la memoria dei Longobardi pare fondersi in una mirabile stratificazione storica e architettonica con le testimonianze dei secoli successivi. Questa, l’immediata percezione avvertita camminando per le vie e le piazze selciate del centro che, intitolate a Berengario, Teodolinda, Alboino, sono ricche di scorci su portali, bifore e archivolti tre e quattrocenteschi.

Guida d’eccezione in un tour alla riscoperta dell’eredità architettonica longobarda è Paolo Diacono (725 ca.- 799 ca.), autore della Historia Langobardorum. Nella Storia dei Longobardi lo storico afferma che a Pavia, all’epoca di Rotari (636-652), ci furono due vescovi: uno cattolico e uno ariano. Quest’ultimo aveva sede nella cattedrale che, dopo la conversione dei longobardi al cattolicesimo, fu dedicata a Sant’Eusebio, il vescovo di Vercelli santificato per essersi distinto durante il IV secolo nella lotta contro il paganesimo e l’eresia di Ario.

La cripta di sant’Eusebio, indicata tra i luoghi del cuore del FAI, è quanto rimane della primitiva cattedrale gemina. Seminascosta nel sottosuolo di Piazza Leonardo da Vinci e sorvegliata da tre alte torri medievali, si può raggiungere anche percorrendo i cortili interni dell’Università. La muratura del perimetro esterno, realizzata seguendo una prassi altomedievale con largo reimpiego di manubriati romani, ossia mattoni di notevoli dimensioni dotati di un incavo per facilitarne il trasporto (usati anche nella porzione di pavimento originale conservata nel giro absidale interno), si data alla prima metà del VII secolo, se non addirittura alla fine del VI, e costituisce la parte più antica dell’edificio.

Nel muro dell’abside, sviluppato a semicerchio, si osserva la successione di undici nicchie, riservate dai Longobardi alla sepoltura dei vescovi ariani. L’accesso al luogo di culto, considerato uno dei primi esempi di cripta a oratorio, è consentito da due porte laterali ad arco, affiancate ai basamenti dei piloni ottagonali della chiesa, sui quali si intravedono decorazioni a motivi geometrici policromi. All’interno cattura l’attenzione un gruppo di capitelli in pietra, ormai privi di colorazione. Ritenuti emblematici nell’ambito della scultura longobarda questi manufatti, lavorati a incavo in forme di triangoli contrapposti, sovrapposti, oppure con angoli arrotondati e foglie lanceolate, agli albori del VII secolo erano dorati lungo i bordi e, molto probabilmente, ornati con paste vitree di colore rosso, blu, verde e giallo.

Simili ai gioielli con cui i Longobardi, uomini e donne, amavano adornarsi, i capitelli longobardi della cripta di sant’Eusebio riproducono attraverso un linguaggio figurativo lineare e rigoroso le forme astratte dell’oreficeria alveolata gota e “barbarica”. Inoltre, la loro innovativa formulazione associa all’astrazione geometrica e alla combinazione cromatica l’elemento architettonico, sino ad allora ancora concepito secondo la tradizione classica e naturalistica del capitello a foglia d’acanto.
Ne emerge la rottura delle testimonianze plastiche di sant’Eusebio con le tipologie tardoantiche e un radicale cambiamento, rintracciabile anche in esemplari altomedievali di ambito bresciano, torinese e ravennate, caratterizzati da riferimenti descrittivi nelle nervature verticali delle foglie o dalla trascrizione puramente grafica e decorativa delle volute.

La decorazione a fresco è un altro elemento di pregio nella cripta di sant’Eusebio. Assegnata alla seconda metà del XII secolo - inizi del XIII secolo, a quell’epoca si estendeva all’intera struttura e rappresentava un raro esempio in Lombardia di integrale rivestimento pittorico. L’intensa attività edilizia longobarda coinvolse pure la regina Gundeperga che, figlia di Teodolinda e Agilulfo, secondo Paolo Diacono: “sull’esempio di quanto aveva fatto sua madre a Monza, costruì una basilica in onore di San Giovanni Battista nella città di Ticino (Pavia) e la adornò in maniera mirabile con oro, argento e paramenti, dotandola riccamente di tutto”.

La chiesa doveva essere quella di san Giovanni Domnarum, innalzata nella metà del VII secolo sul sito di un battistero femminile. Secondo alcuni cronisti ciò spiegherebbe il curioso appellativo “delle donne”, da altri studiosi invece attribuito al fatto che la basilica era frequentata dalla regina e dal suo seguito di dame. Del mausoleo di Gundeberga rimane la cripta con volte e pareti rivestite da affreschi che, dipinti nei decenni 1140-1160, seguono un programma iconografico unitario.

Nascosta in una minuscola viuzza del centro storico, celata all’esterno da una facciata quattrocentesca e da un interno seicentesco, la suggestiva architettura presenta un apparecchio murario formato da mattoni di grosso modulo e tratto a spina di pesce, affine a quello di Sant’Eusebio. Osservandone i muri di fondazione e quelli perimetrali si avverte l’uso di materiale di reimpiego d’età romana. In particolare si possono notare delle formelle laterizie rotonde, le suspensurae, di solito usate nella costruzione di terme. Tale indizio porta a supporre la vicina presenza di un complesso termale romano, nel VII secolo caduto in disuso.

La cripta di san Giovanni Domnarum, preceduta da un atrio e dotata di un impianto a oratorio con andamento fortemente circolare nel lato sud, riprende la pianta centrica delle Grab-kirchen regali. Le edicole sepolcrali dell’aristocrazia progettate come versatili copie altomedievali e al contempo metamorfosi della rotonda gerosolimitata dell’Anastasis che, concepita nel IV secolo dagli architetti di Costantino per custodire il Santo Sepolcro, inaugurò nei moduli architettonici cristiani il prototipo del mausoleo circolare con deambulatorio.

L’ex monastero di san Felice è la prossima tappa. Chiamato anche “monastero della regina”, fu fondato nell’VIII secolo e intitolato a San Salvatore, agli Apostoli e a San Daniele da Ansa, moglie di Desiderio (757-774), ultimo re dei Longobardi. Nel 771, Desiderio, con un diploma confermò la struttura monastica tra i possedimenti del cenobio bresciano di San Salvatore, anch’esso creato dalla coppia regale. La residenza religiosa pavese ospitò regine, principesse e nobildonne in visita nella capitale del Regno. All’inizio del Mille conquistò l’indipendenza da Brescia, assumendo la dedica a San Felice, martire del III secolo del quale la chiesa vantava le reliquie.

Raggiungendo l’ex monastero da via Sant’Invenzio il prospetto della possente, rossiccia partitura muraria altomedievale del fianco sud, scandita da una serie di archetti pensili con monofore a pieno centro, sembra sbarrarci la strada. In questa chiesa che, risultato di allungamenti, demolizioni e trasformazioni avvenute in epoche differenti, è ora adibita ad aula studio universitaria, le testimonianze dei secoli VIII-IX sono poche ma affascinanti. Riusciamo a seguire l’evoluzione architettonica del fabbricato esaminando le tracce lasciate nella pavimentazione, ove una soglia di pietra grigia indica la probabile estensione del tempietto di Ansa. Lungo circa 15 metri, con una pianta a navata unica terminante con tre absidi, sfondate nel XVII secolo, esso era preceduto da un atrio, destinato ad area sepolcrale. A provarlo concorrono alcune tombe “alla cappuccina”, rinvenute nel corso di scavi avviati nel 1996.

Tra le sepolture, la centrale è quella più interessante. Appartenuta alla abbatissa Ariperga, risale alla fine dell’VIII secolo ed è finemente affrescata. Come la chiesa di san Giovanni Domnarum, anche l’ex monastero di san Felice possiede la propria, straordinaria cripta, che, caratterizzata da una configurazione triabsidata, conserva tre imponenti arche-reliquiario marmoree di epoca carolingia. Decorate da alveoli di forma geometrica, in passato probabilmente riempiti da coloratissime paste vitree, le arche dell’ex monastero di san Felice, al pari dei capitelli alveolati nella cripta di sant’Eusebio, imitano nella scultura longobarda e carolingia l’incastonatura di gemme, consueta nella coeva produzione orafa. Nell’Historia Langobardorum Paolo Diacono cita come già esistente nel 642 anche la chiesa di San Michele Maggiore.

Dedicata a uno dei santi più venerati dai Longobardi quest’architettura sacra, ora ritenuta un capolavoro del romanico lombardo, fu edificata all’inizio del XII secolo sui resti di una preesistente basilica che fu prima cappella palatina dei sovrani longobardi e poi chiesa in cui si svolgevano le cerimonie di incoronazione dei sovrani del Regno Italico. In ricordo del rito delle incoronazioni una lapide ottocentesca, incastonata nel pavimento della navata centrale, mostra l’immagine stilizzata della corona ferrea di Teodolinda, per secoli indissolubilmente legata alla città di Pavia e alla basilica di san Michele. La chiesa, tappa del Cammino Micaelico italiano, nonostante la ricostruzione in forme romaniche abbia cancellato i riferimenti architettonici d’età longobarda, senz’alcun dubbio merita una visita.

Da non perdere: i meravigliosi capitelli scolpiti, il Crocifisso di Teodote (sec. X), il mosaico pavimentale del presbiterio (prima metà del sec. XII) e il duecentesco affresco con la scena della Dormitio Virginis, un tema iconografico di ascendenza orientale molto diffuso nella pittura bizantina, piuttosto raro nella produzione figurativa occidentale.