La pianura, vasta e desolata, si distende davanti come una tela in bianco, un campo di attesa, mentre le ombre si allungano lungo l'orizzonte.

Forte Bastiani è la cattedrale del tempo che si dissolve, metafora tattile dell’illusione dei destini eccezionali, del sogno dell’ambizione.

È per questo che Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati continua a parlarci, insinuando quelle paure che sono le nostre, quel terrore della stagnazione, l’avanzare del tempo, l’idea che una cosa possa accadere solo perché siamo lì ad attenderla.

«Sentiva un’ombra di opaca amarezza, come quando le gravi ore del destino ci passano vicine senza toccarci e il loro rombo si perde lontano mentre noi rimaniamo soli, fra gorghi di foglie secche, a rimpianger la terribile ma grande occasione perduta.»

L’esperienza di Giovanni Drogo è la vita che si dissolve in una sequenza di giorni indistinguibili, perdendo significato e valore, specchio di quella pianura dove ci pare di avvistare i miraggi di un destino altro e dove invece vagano gli spettri della noia, della monotonia, della frustrazione.

Il terrore di una vita vasta ma sterile. L’ossessione del tempo.

«Il tempo correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro.»

E i Tartari.
Il Nemico che mai si materializza.
I mostri che solo noi possiamo creare nella nostra mente.
Eco delle paure che ci perseguitano nell'attesa.
Minaccia che è solo proiezione dell’insicurezza.
Quel prima o poi, quel chissà che frena tutte le volontà, tutti gli aneliti.

«Nel sogno le cose non sono mai limpide e materiali come quella desolata pianura su cui avanzavano schiere di uomini sconosciuti.»

E la morte. L’altra presenza costante, verità ineludibile che permea l'intero romanzo. Il paesaggio disegna l'ombra della morte su tutto ciò che vi è contenuto, come uno specchio in grado di riflettere la finitezza. Guardando l’orizzonte, Drogo si confronta con la propria mortalità e in questo confronto trova la chiave per comprendere il senso della sua missione.

Drogo si rende conto che la sua stessa realizzazione come individuo e come soldato è intrinsecamente legata alla morte. È nell'atto di affrontare la morte in modo dignitoso che Drogo scopre il significato più profondo della sua esistenza. La morte, allora, non rappresenta una fine ineluttabile, ma piuttosto un passaggio, un rito d'iniziazione, un'opportunità per dare un senso alla sua vita.

«Dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.»

La morte, nel mondo di Buzzati, ci invita a non aspettare gli ultimi istanti per dare un senso alla nostra esistenza. Ci esorta a non lasciare che il tempo si disperda nell'attesa. La morte, l'ombra imminente, non dovrebbe essere un'ossessione, ma un motore per perseguire ciò che conta. È la guida, la compagna di viaggio che ci ricorda che ogni istante è inestimabile e che l'attesa non dovrebbe essere un ostacolo, ma solo uno dei tanti passaggi verso la realizzazione.

Le metafore di Buzzati sono finestre aperte sull’inafferrabile. La lettura di questo romanzo non è solo un atto di fruizione letteraria, ma un'esperienza emotiva molto forte, in cui lo specchio di Drogo si fa eterno richiamo alla fragilità delle nostre ambizioni e la presenza costante della morte ci invita a far sì che le nostre aspettative non si riducano a futili illusioni.

«Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intonso e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d’erba, tutto così da immemorabile tempo.»