Al culmine delle sue avventure Pinocchio ha un sogno nel quale gli appare e lo bacia la Fata. Al risveglio, lo stato del sognatore è mutato, e così pure l’aspetto del luogo in cui si trova. La stanzina dalle pareti di paglia è diventata una camera ammobiliata “con una semplicità quasi elegante”. I frusti indumenti da burattino sono ora un completo impeccabile che il risvegliato indossa e rimira allo specchio. Il “doppio” che lo guarda è “un bel fanciullo con i capelli castagni e gli occhi celesti, e un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose”. Chi è il ragazzo che guarda Pinocchio?

Lo stupore e la meraviglia inducono il sognatore a una prima prova d’identità: “Entrando nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buon umore come una volta e subito ripresa la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali”. Se la prima verifica è riuscita, la seconda è a vista in un angolo della stanza: “un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato da una parte, le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto”. I dubbi del protagonista sono dissolti. Pinocchio guarda il suo “doppio” come ciò che è ormai definitivamente altro da sé, una buccia di legno, un inerte e assurdo corpo-di-sogno.

In certe opere di pittura fiamminga capita talvolta di vedere il santo intento a contemplare il guscio sanguinolento della sua spoglia mortale, abbandonata come un costume di scena.

Prototipo del risvegliato, di colui che nella metafisica indiana si definisce due-volte-nato (skr. dvija), potrebbe apparire Pinocchio se, ignorando il tono dimesso del racconto e la trita atmosfera da bozzetto paesano, si volesse leggere l’opera come un insospettato piccolo ‘tantra’ del risveglio, culminante nel sogno del protagonista e nella prova dello specchio.

Se quella adombrata nella fiaba fosse una rinascita, è certo che la sua chiave di soluzione va rintracciata all’epilogo dove s’adunano i nodi simbolici principali: il sogno di Pinocchio, l’apparizione della Fata e il bacio, lo stupore e la letizia pasquale del risvegliato, lo specchio e il doppio, il lascito della Fata, la metamorfosi del luogo e le restaurate fattezze del padre putativo, la trasformazione del burattino di legno nel bel fanciullo che incredulo si rimira allo specchio.

Interpretata iniziaticamente la distanza tra il primo e il secondo Pinocchio potrebbe equivalere al cammino interiore percorso dal protagonista per attuare la sua trasformazione dall’ordine geometrico a quello antropomorfico, da automa di legno a uomo vero, ossia due-volte-nato.

Nella metafisica buddhista, lo spazio che separa l’adepto dal risveglio è definito karuna (compassione), perché è com-patendo la propria natura oscurata che egli riesce a perfezionarla e ad estinguere le maschere in cui consiste la sua falsa persona.

Nel Tantra dello Yoga supremo che illustra le modalità del trapasso a una nuova nascita, si dice: «chi nasce nei mondi del desiderio e della forma deve attraversare uno stato intermedio durante il quale ha l’aspetto della persona in cui rinascerà. Dispone di tutti e cinque i sensi ma è anche chiaroveggente, non conosce ostruzioni e può giungere immediatamente ovunque voglia». La somiglianza di questo ritratto col burattino Pinocchio non è trascurabile. Egli è descritto benché legnoso come un essere senziente completo, assai mobile e desto al punto che da sé o su appropriati veicoli è in grado di colmare grandi distanze, in un cosmorama di città, foreste, isole e rupi. Non è chiaroveggente, tuttavia è in contatto sottile con esseri in natura di cui conosce la lingua, e una creatura chiaroveggente, la Fata turchina, lo assiste e lo guida. Più oltre nel Tantra è detto che l’aggancio ad una vita avviene sotto l’influsso del desiderio, dell’odio e dell’ignoranza. Fino a quando queste afflizioni permangono, si è come incatenati. Ma una volta eliminata l’ignoranza, le catene si spezzano.

La nascita di Pinocchio risale a un desiderio: «Mi è piovuta nel cervello un’idea – afferma il falegname Geppetto – fabbricarmi un bel burattino… che sappia ballare, tirare di scherma, e fare i salti mortali…». Si direbbe che la forza del desiderio renda Geppetto la causa materiale della nascita di Pinocchio, ma il fatto che sia un automa dipende piuttosto dalla soggezione del burattino al suo archetipo.

Se burattinus nel latino medievale è il setacciatore di farina dai movimenti a scatti, la marionetta trae il suo nome dalle statuine raffiguranti Maria, infatti le fanciulle sfilanti in processione in onore della Vergine, erano dette marione. Da Platone all’India a Bali il «complesso della marionetta» è stato utilizzato come metafora della schiavitù interiore dell’uomo, a meno che egli non sappia convertire il suo stato vincolato e infelice in una resa perfetta. E questa è una parabola che le Avventure di Collodi sembrano per molti versi adombrare.

C’è poi dall’inizio alla fine la ricorrenza del numero quattro. Quattro soldi erano occorsi a Pinocchio per accedere al Gran Teatro dei Burattini. Quattro le monete d’oro seppellite nel Campo dei miracoli per ottenerne molte di più. Quattro le esperienze di pseudo-morte vissute da Pinocchio: per combustione allo spiedo di Mangiafuoco; per impiccagione alla Quercia grande; per frittura in olio bollente nella capanna del Pescatore; per affondamento rivestito di pelle d’asino.

Quattro i camuffamenti subìti: infarinato, è assimilato a un pesce; in catene, fa le veci di cane da guardia sventando la razzia di quattro faine; indottrinato alla scuola elementare, si atteggia a studentello; trasformato in asino, si esibisce in un circo. Quattro, gli incontri con il grillo-coscienza. Quattro i mesi di carcere scontati nella città di Acchiappacitrulli. A quattro piani è la casa che lo ospita nell’isola delle Api industriose. Quattro sono le sembianze in cui il nume si manifesta a Pinocchio: come Bambina morta e sorellina, come Fata, come donna-madre-bella Signora, come Capra. Quattro volte Pinocchio subisce la tentazione: nel teatro dei Burattini, nella città di Acchiappacitrulli, nell’isola delle Api industriose, nel Paese dei Balocchi. Ognuna delle prove delinea una felicità impossibile, a seconda che Pinocchio insegua il sogno di farsi attore lui stesso in un teatrino, di accumulare una ricchezza sconfinata, di vivere una cuccagna perenne.

Il quattro è la cifra simbolica della manifestazione, della solidità e finitezza terrestre, delimitata e limitante. Ogni civiltà ha elaborato una coerente simbologia del quattro, dal punto di vista cosmologico, antropologico e iniziatico. Il viaggio dell’adepto attraverso i quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) e i quattro regni cosmici (inferi, terra, atmosfera, cielo) configura una metafora di significato universale. Nelle Avventure il ruolo simbolico del quattro si arricchisce di un’ulteriore valenza nella duplicazione finale. I quattro denari sperperati da Pinocchio, i quattro zecchini sottrattigli dal Gatto-inganno e la Volpe-astuzia diventano un gruzzolo di quaranta soldi cui Pinocchio rinuncia volentieri per soccorrere la Fata ammalata. E quaranta è la cifra dell’attesa, della prova risolutiva al compimento di un ciclo. L’ulteriore trasformazione dei quaranta soldi in quaranta zecchini d’oro sigilla infatti la revulsione del burattino dinanzi allo specchio.

Trapela nelle Avventure la doppia natura del protagonista. Come piccolo pino destinato al sacrificio, ha radici ancorate alla terra e in se stesso, ma come automa pare manovrato da qualcun altro. Non il padre putativo che abbandona prestissimo ma una creatura numinosa: ora bambina, ora donna, ora Fata, ora Capra. La funzione di costei è salvifica: lo sottrae alla morte, maternamente lo alleva, lo riscuote dall’abiezione, lo risospinge nell’acqua alla cerca del padre apparendo come capra su un ciglio di rupe.

Celeste nei capelli e nel vello, la Fata-Capra è uno dei due segni numinosi nella fiaba. L’altro è l’asino. Questo animale ci si mostra d’acchito come emblema di stupidità, oggetto di scherno e demonizzato quasi ovunque. Il persiano Rumì esclama: «Dovevo io conoscere questo pascolo d’asini?». Ma se s’indaga nella sapienza arcaica, si scopre una serie di associazioni simboliche ben lontane dalla nomea del disprezzo. I vistosi connotati anatomici suggeriscono perspicacia d’udito e potenza sessuale. La sua soggiogabilità denota umiltà, pazienza e sopportazione. Si consideri che il Cristo del cosiddetto crocifisso di scherno del Palatino ha testa d’asino. É certo che nella Roma pagana si ritenevano adoratori dell’asino ebrei, gnostici e cristiani. Il cartaginese Tertulliano, dopo la conversione al cristianesimo nel 196, così rispondeva ai dileggi: «Voi non potete negare di adorare tutti gli animali, mentre noi cristiani adoriamo un asino».

La metamorfosi di Pinocchio allude a due altri connotati tradizionali dell’animale. Come pagliaccio è rappresentato con tromba, cornamusa, corno, salterio, violino e lira; e come bestia da sacrificio lo descrive Fedro nella favola dell’asino e della lira, dove afferma che si fanno tamburi «con la pelle dell’asino affinché riceva percosse anche da morto».

La fase asinina di Pinocchio delineerebbe una parabola misterica completa, dal primo spuntar delle orecchie al raglio, al ludibrio nel circo, all’affondamento inguainato in un tamburo. L’intervento dei pesci ingordi dimostra che l’asinità di Pinocchio, a differenza di quella del suo alter-ego Lucignolo, è reversibile.

Molto altro ci sarebbe da aggiungere ma per avviarci ad una conclusione, pensiamo le Avventure come un cammino di fuga e ritorno. Dopo che Pinocchio nel ventre del mostro ritrova il padre e i due allacciati sulla groppa del tonno, solcano le grandi acque imbiancate di luna, egli approda come Enea. É rinsavito. Accudisce il padre di nuovo lietamente indaffarato a intagliare, assiste al trapasso dell’amico Lucignolo. I quaranta denari guadagnati diventano un obolo da versare alla Fata. Lieto, sogna. Il soffio che gli mancava per accedere alla rinascita gli è trasmesso dalla Fata con un bacio. La gioia al risveglio è pari allo stupore allo specchio.

Il giovanetto che nella Villa dei misteri a Pompei si guarda nella coppa che gli porge il sileno, la tarantolata che al culmine dell’estasi figge le pupille invetriate nello specchio prima che l’incanto che la possiede svanisca – tre secoli orsono lo riferiva il filosofo Berkeley nel suo Viaggio in Italia – mostrano che l’ultimo lembo della storia di Pinocchio compone una palingenesi, la seconda nascita (dvija) che arride allo yoghi indiano.

Ci sono fiabe, come le Avventure di un burattino che andrebbero catalogate nei registri esoterici mondiali. Nella loro remota antichità, trasmesse oralmente assai prima che scritte, additano le varie possibilità concesse alla condizione mortale. E lo stesso ovvio epilogo della maggior parte di esse: «E vissero (i protagonisti) felici e contenti», adombra un ottimismo di cui ogni bambino ha bisogno per intraprendere la navigazione nelle “grandi acque” dell’esistenza.