Sembrano piccoli esseri misteriosi e vivi. Respirano a stento, come fossero stanchi, ma di una stanchezza che non ha conosciuto la fatica. E poi inutili bolle, tutte diverse, che esplodono, descrivendo composizioni sul pavimento. Acqua, qua e là, ma a noi parole turba ancora il respiro degli esseri. Piccoli esseri misteriosi e vivi. Issati come bandiere, ma senza stato. Eppure, noi parole vorremo conoscerli. Penetrare le loro umide cavità. Rubarne il segreto, il respiro.

Aida, per una fenomenologia dell’incontro

Descrivere una pratica significa innanzitutto circoscrivere un ambito di intervento. Se dovessimo tracciare un campo d’azione per il lavoro di Marco Giordano, dovremmo rivolgerci a un concetto che la tradizione filosofica giapponese ha espresso col termine aida: una distanza che connette. Lo aida è il vuoto, l’intervallo, lo spazio di contatto tra organismo e ambiente. Si dice che il modo migliore per rappresentare questa nozione, sia quello di pensare a una stanza immaginaria che si trova in una posizione indefinita tra il cielo e la terra. Lo aida, come ha scritto Bin Kimura, è la “realtà stessa dell’evento” , è lo sfondo originario dal quale emerge ogni relazione. Siamo di fronte a un accadimento che si consuma in un campo dove nessun dualismo è ancora all’opera, dove i territori dell’io e quelli dell’altro si danno come intreccio radicale. Giordano stabilisce la sua pratica in questa zona opaca, si dimentica e si confonde nella relazione: lo aida è il suo vero medium, il “tra” è campo d’azione in cui svolge la sua pratica. Si tratta di un regno dalla grammatica in fieri, mai codificato, sempre in-situazione, che definisce il lavoro dell’artista sulla base di un principio esogamico: affette da un congenito bisogno di radicamento all’esterno di sé, le sue opere sono modellate da una logica performativa. Entità ibride, dal carattere eterogeneo, esse conservano contraddizioni e disaccordi di quella zona opaca che ne ha visto la nascita. È per queste ragioni che coglierle per mezzo di un’attenta analisi delle loro proprietà fisiche, per quanto giusta e precisa che sia, non è il modo esatto di approcciarle: esse non sono “asserzioni” di materiali e forme, ma oggetti-evento che si danno nello spazio fenomenologico dell’incontro.

Intermezzo

Si, certo, tra il cielo e la terra, ma come facciamo ad entrare in quella stanza di cui mi parlavi? Deve esserci un mezzo per arrivarci. Hanno sempre detto che siamo un mezzo, che noi parole siamo un mezzo, ma adesso che a noi serve un mezzo, come faremo adesso?

Prima di tutto, l’atmosfera

Se c’è un concetto che la critica d’arte del Novecento ha divorato con ferocia e risputato con orgoglio, questo è quello di medium. Questa parola sembra ormai passarsela abbastanza male, diventata uno dei tanti termini ombrello che adornano l’infinita tristezza dei comunicati stampa, essa gode di una salute alquanto precaria. Eppure, nonostante la riflessione sul medium sembra essere giunta a un punto di non ritorno, è indagandone la geneaologia che è possibile tirar fuori un impensato che risulta produttivo per le riflessioni che seguono. La pratica artistica di Giordano sembra invitarci a un ripensamento radicale del concetto di medium – oltre il prescrittivismo della teleologia greenberghiana e l’eclettismo postmoderno – riportandoci alla sua accezione originaria che, come un’ampia letteratura ha sostenuto, lo vede legato al termine aristotelico metaxu. Per Aristotele, affinché sia possibile la percezione visiva è “necessario che esista un mezzo [metaxu]”, un elemento intermedio in cui ha luogo il sensibile: “se qualcuno appoggia l’oggetto colorato sull’occhio non riuscirà a vedere nulla” . È questo stesso metaxu, come ha scritto Emanuele Coccia riprendendo il passaggio aristotelico, “a offrirci tutte le nostre esperienze, è questo stesso medium a secernere instancabilmente luce e colore, suono e odore […] Nel grembo di questo medio gli oggetti corporei divengono immagini e possono così agire sui nostri organi percettivi” . Muovendo da queste riflessioni appare particolarmente opportuno intercettare il lavoro dell’artista mettendo in campo la nozione di atmosfera, così come formulata dagli studi di atmosferologia inaugurati da Gernot Böhme e Herman Schmitz. Analoga al “medium aristotelico”, l’atmosfera rappresenta, più precisamente, una particolare configurazione di tale medium, uno stato d’eccitazione. “Le atmosfere” ha scritto Böhme “sono qualcosa tra soggetto e oggetto. Non sono qualcosa di relazionale bensì la relazione stessa” . Descritta come “quasi cosa”, “impressione attiva”, l’atmosfera è “prius qualitativo-sentimentale, spazialmente effuso, del nostro incontro sensibile col mondo” . È la percezione di una disposizione d’animo il cui carattere specifico 5 non è riducibile alla somma dei suoi elementi. In My mouth in your mind Giordano scolpisce questa regione percettiva abbracciando il dispositivo mostra e intendendo l’oggetto d’arte come portatore di affordance – nel senso gibsoniano –, ovvero di inviti sensomotori che regolano l’esperienza spettatoriale, riprendendo un atteggiamento già evidente in mostre precedenti, come Pathetic Fallacy – allestita a Milano nel 2017 per lo spazio progetto Il Colorificio – e Cutis, alla Glasgow Project Room (2017). Se il significato della mostra non è consegnato ai limiti dell’oggetto, quanto all’eccitazione atmosferica strutturata a partire da quest’ultimo, resta allora da indagarne l’intonazione: la precipua qualità atmosferica.

Ultimo atto

Canta dentro una conchiglia, canta come una conchiglia. La sua voce è(e) quella della(nella) conchiglia. Come Josephine, la cantante kafkiana del popolo dei topi, chi comprenderà il suono di quella voce? Ora capisco perché ci dicevi che desideravi soltanto le cose che non capivi.

Nella lingua

Tutto, insomma, nell’erotismo, porta al delitto

(Alberto Moravia)

Avvicinando l’esperienza erotica e quella mistica e riflettendo sulla loro portata conoscitiva, Alberto Moravia introduce così Storia dell’Occhio di George Bataille: “L’erotismo sembra essere una forma di conoscenza, che nel momento stesso che scopre la realtà, la distrugge. In altri termini si può conoscere il reale per mezzo dell’erotismo; ma al prezzo della distruzione completa e irreparabile del reale medesimo” . Moravia sembra segnalarci un’incommensurabilità tra l’esperienza erotica e quella conoscitiva esprimendo, allo stesso tempo, la convinzione che entrambe si diano in una relazione di assoluta dipendenza. “In fondo”, continua lo scrittore italiano, “la forma di conoscenza propria dell’erotismo riguarda unicamente l’erotismo. Esso si sforza di conoscere se stesso e attraverso questo sforzo si manifesta e si esprime” .

Nel solco di quest’apertura offertaci da Moravia, più che un preciso oggetto erotico, dovremmo piuttosto individuare un movimento, che definisca l’erotico in quanto inappagabile pulsione conoscitiva. In My Mouth in your Mind questa pulsione non si manifesta nella scontata analogia tra i volumi scultorei e le forme falliche o vaginali, quanto in una tensione che smentisce puntualmente la corrispondenza tra queste: segnate da un antropomorfismo mancato, i moduli installativi presenti in mostra generano un impedimento a quella modalità di pensiero che tende ad addomesticare l’Altro per leggerlo sotto una rassicurante lente antropica. Ed in fondo questo stesso erotismo, questo stesso movimento, che porta l’artista ad operare sul mezzo più umano, il linguaggio, per stabilire un faccia a faccia con la sfera del non-umano. Sembra in fondo una sfida impossibile, che si incunea nel fatale errore delle filosofie orientate all’oggetto, quello “di non avere messo in questione il ruolo centrale che occupa il linguaggio nella costituzione della nostra rappresentazione ontologica del mondo” . Tuttavia, è proprio in questo ossessivo tentativo di piegamento, di slabbratura della parola, che Giordano porta avanti un’immersione in quel mondo-senza-di-noi per debilitare lo spazio del logocentrismo – dimora del simbolo e del significato. Mossa da una logica “anti-edipica” l’energia che percorre la mostra sconsacra l’altare della parola e ridisegna il luogo della voce, per consegnare i risultati a una musica che ci dice l’inestricabile intreccio con l’Altro.

“Umani e non umani danzano da sempre avvinghiati tra loro” , ha scritto Jane Bennett. My Mouth in your Mind è allora un invito ad assecondare questa danza, all’abolizione della distanza che ci separa da ogni cosa, all’omicidio dell’Altro: è in questo farsi mondo che si svela il senso dell’erotismo, del delitto.

Vincenzo Di Rosa