Da ormai cinquecentotrentadue anni è primavera. E ancora da prima, e così sarà all’infinito di questi battiti. La prima vera primavera, quella che Botticelli creò dal suo estro, un quadro che profuma nella memoria di tanti.

Ricordo ancora di come la prima volta trovatami agli Uffizi me lo ritrovai davanti, un inno alla grande bellezza, la bellezza sinuosa delle forme delle velature, quei frutti e quelle foglie potevi sentirli profumare, anche a distanza di secoli, ritornavano in auge attraverso tutti gli sguardi che vi si erano posati. La venere casta, al centro della figurazione, con un panneggio vellutato come la pelle odorosa di un'albicocca accesa, inclina il suo volto con grazia estrema, quella stessa grazia che trova le onde trasparenti che lente scivolano sulle carni avorio delle tre grazie, che burrosamente formano un cerchio, una ciclicità che inneggia alla vita, alla resurrezione, al dolce svegliarsi che è materia prima della primavera.

E le dita delle mani sollevate e intrecciate tra loro, un intreccio di seduzione che evoca una caduta di champagne in una coppa di cristallo, la trasparenza e la preziosità sono colori e valori che fanno eco. Ma i personaggi che da sempre hanno esercitato un potente fascino su di me sono sicuramente l’intrepido e volante Zefiro, Clori e Flora. L’azzurro bronzeo di Zefiro alimenta le ombre e l’espressione soffiata e decisa che trova compimento nelle braccia cinte sui fianchi di Clori, Zefiro evade leggero sospinto senza luogo, come una tempesta in agitazione, i panneggi che lo avvolgono coraggiosi curvano tormentosi, creando onde di sublime passione zelante. Flora, la vera protagonista del quadro, è cosparsa di fiori dalla punta dei capelli biondi fino alla punta dei piedi scalzi che tentano timidi e quasi incerti di sollevarsi. In tutto il quadro si tratta di una continua elevazione, chi alza la spada al cielo, chi vola al di sopra delle teste promettendo amore, o chi unisce sobriamente le mani al cielo, chi alza una mano in segno di un’approvazione sacra, che sta per essere catturata dal vento.

Non siamo che elastici di congiunzione tra blu e marrone, cielo e terra, profilo e altro profilo. Come non si può rimanere che smarriti in questo non luogo danzante e bloccato in un bocciolo, come non si può ritrovare il coraggio della rinascita e del rinnovo che ogni piccolo fiore fa in primavera? L’armonia di un fiore, il suo lento sbocciare, è un aprirsi al mondo, un accogliere in sé l’aria dell’universo, il tempo e gli umori di un epoca. Come si può non pensare a Flora come a ognuno di noi? Un tutt’uno con la madre terra, un respiro intenso e vitale, uno sbocciare perpetuo che porta con sé la gestazione della creazione.

Una natura che porta con sé il cambiamento, la vita, la deriva, la caducità, la rarità, la forma e il colore. Botticelli tramite quei panneggi e quelle trasparenze ci riporta a una sofficità di visione eterea, inebriante di semplice leggerezza, ma una semplicità complessa che non si risolve, che non dischiude il suo ultimo petalo, che non si fa subito raccogliere, ma che si fa enigma vibrante.

Camminavo a piedi nuda, scalza, nell’archeologia della memoria, mi immaginavo tra resti di templi antichi, in un passato che è storia collettiva, che rimane ancorato come una traccia di rossetto su una sigaretta o su un bicchiere di vino bianco, l’odore è leggero, ma umido e vicino. Tra le sedimentazioni dell’esistere si cela un calco in gesso, è un volto appartenente alla statuaria classica, reciso da un corpo di muscoli fantasma, che giace supino e bendato. Si lascia accarezzare da un panneggio di stoffa reduce da un’esplosione vorace di vari colori. Che un qualche tessuto tardo quattrocentesco sia volato attraverso i giorni e sia giunto per fare da supporto non invadente al misterioso calco?

Il volto è interamente coperto di pigmento giallo di cadmio, puro, talmente puro, proprio come le forme sinuose delle tre grazie botticelliane. E accanto al volto bendato e al panneggio ecco spuntare una farfalla. Le nervature delle ali fanno vibrare e risuonare all’infinito un sussulto cosmico, un battito del cuore, il nascere di una lacrima, la contrazione di un sorriso, la finitezza della bellezza umana. Struggente lirismo, e poesia che si fa scavo, reperto, stratificazione sensoriale. Scorza di limone e latte.

E’ un'eco sordida di arpa. Le corde tese producono note, che non si possono vedere ma solo sentire, perché anche noi siamo bendati, e siamo liberi dal tempo del qui e ora. Il tempo diventa un flusso continuo, un pigmento informe, troppo accecante e azzerante per essere colto. Un tempo che abbaglia perché lega passato e futuro. L’opera Senza Titolo del 1970 di Claudio Parmiggiani, è un monumento alla memoria scalza e folle, libera di rotolarsi in un campo di grano dorato, talmente bella da non poter essere. Parmiggiani abbina in un trittico visivo una composizione dalla grazia ridondante, dall’eleganza, dalla sottigliezza e dalla fragilità uniche. La farfalla si posa sull’instabilità della vita stessa e viaggia attraverso la polvere dei secoli per riportarci a una classicità perduta ma che vede nella polvere un risveglio cromatico denso e intenso, suggestivo, e delicato. Un giallo che si fa deittico ed eclissi di tempo.

E’ il risveglio della prima vera primavera, i ricordi riempono i polmoni di polline e tutto rinasce, sboccia e cresce con la consapevolezza che tutto è in divenire per poi finire, per essere poi rispolverato dell’esistenza stessa. L’opera di Parmiggiani è ritrovo e riscoperta continua del tempo che è. E la farfalla elude all’ascesa, al movimento, allo slancio in punta di piedi come nella foto di Robert Mapplethorpe. Una composizione silenziosa, in bianco e nero, anche qui, si grida sottovoce per non crepare il vetro sottile dello sguardo.

Uniche protagoniste due gambe maschili, erette, tese, concentrate, collinari e muscolose, diventano paesaggi in verticale, distese di vegetazioni di un uomo che danza tra ombre e luce che vibrano e si stagliano tre la curve, di un sedere scultoreo, c’è il senso della proporzione classica, c’è la seduzione della trasparenza, data dalla scelta di fotografare solo una parte di corpo. Vediamo e non vediamo, siamo bendati, lo sguardo è velato, non c’è totalità, ma solo una parte per il tutto. E una parte forse può bastare per riempire il cuore di elan vital. Le punte dalla natura muliebre calzano i piedi dell’uomo con devozione e passione stringendo a sé la pelle, un’umiltà che si fa sforzo, esercizio e sospensione, e bellezza, grande bellezza... una bellezza che sorregge, che innalza, che slancia e che unisce.

Sulla sinistra, timido compare un panneggio latteo, quei panneggi che hanno accompagnato questo breve percorso tra il vento, da Botticelli fino a Mapplethorpe per passare da Parmiggiani, punti di luce, filtri di reminiscenza. Tre opere che ci raccontano accogliendoci sulle loro ginocchia, l’elogio della rinascita, della sensualità, del ritmo, della fragilità, della bellezza, per perdersi scalzi in punta di piedi tra i pigmenti della memoria, nudi e liberi, bendati e folli. In ascesa. Leggermente.