Alcune specie vegetali appartenenti alla famiglia delle Solanaceae, destinate alla preparazione di polveri, unguenti e pozioni, sono particolarmente importanti dal punto di vista antropologico, poiché rivestono un ruolo fondamentale nella genesi della stregoneria: un fenomeno sociale e religioso che ha avuto un esito drammatico, soprattutto per tutte quelle vittime che sono state sacrificate dalla Santa Inquisizione. La storia delle donne è fatta di una lunga catena di soprusi, di paziente remissione, di silenziosa e servizievole fedeltà ai vari padri, mariti e sacerdoti-padroni, ma solo durante la famosa "persecuzione delle streghe" la denigrazione dell'immagine femminile, alimentata da un clima di sospetto, paura e superstizione ed esplicita misoginia, ha raggiunto un livello di malvagità incredibile.

Prima della spietata repressione perpetuata a loro danno, le cosiddette “donne d'erba” o “herbarie” (guaritrici ed erboriste) rivestivano un ruolo importante nell'ambito della comunità. L’istinto, la sensibilità e un'innata empatia per i misteri della Natura, erano i loro strumenti di emancipazione. Conoscevano i luoghi dove crescevano le erbe commestibili, medicinali e velenose. Conoscevano i segreti della magia, le pozioni che aprivano le porte della percezione e quelle che abbreviavano la vita. Conoscevano i segreti della nascita e quelli per interromperla. Conoscevano le medicine che curavano le malattie del corpo e quelle dell’anima.

Nonostante la loro tossicità alcune Solanaceae vengono impiegate nella preparazione di una vastissima gamma di prodotti medicinali naturali e di sintesi, dalle comprovate proprietà analgesiche, sedative, narcotiche, antisudorifere, inibenti le secrezioni, cardiotoniche e antispasmodiche delle fibre muscolari lisce (in particolare negli spasmi bronchiali, gastrici e addominali). La somministrazione dei loro alcaloidi, soprattutto quelli contenuti in Atropa belladonna L., Mandragora officinarum L., Datura stramonium L., Hyosciamus albus L. e H. niger L., provoca un’intensa eccitazione psichica e motoria, alterazioni tattili e gustative, allucinazioni visive e uditive, distorsione spazio-temporale, modificazione nella percezione dello schema corporeo, sensazione di leggerezza, graduale dissoluzione fisica, capacità di immedesimarsi negli aspetti elementali della natura. I sintomi dell’avvelenamento sono caratterizzati da una marcata diminuzione delle secrezioni corporee (secchezza delle fauci, narici, dotti lacrimali e pelle), dolori gastro-intestinali, midriasi, cefalea, vertigini, alterazioni cardio-circolatorie e respiratorie. Dati sperimentali hanno dimostrato che l’effetto psicotropo è riconducibile alla somministrazione dell’estratto completo della pianta (effetto sinergico tra i vari componenti); al contrario, l’impiego di ciascun principio attivo isolato è causa di grave tossicità, ma di ridotta attività allucinogena.

Nel Medioevo, per mitigare i gravi effetti collaterali provocati dall’ingestione di questi alcaloidi, spesso si procedeva alla loro somministrazione per via cutanea: tali sostanze erano estratte per macerazione o distillazione, miscelate a grasso animale (generalmente di maiale) o ad olio vegetale e quindi impiegate sotto forma di pomata o unguento. L’uso topico di questi preparati era subordinato a una precisa mappatura fisica: palmo delle mani, pianta dei piedi, incavo delle ascelle, gola, petto, e organi sessuali (mucosa vaginale e anale) erano le principali parti del corpo designate a questo scopo. Quello che è emerso dai libri di magia e dai verbali della Santa Inquisizione, in fatto di tossicologia, è particolarmente interessante per spiegare certe interpretazioni fantasiose e le varie iconografie sull’argomento, ma non giustifica il tentativo da parte di alcuni ricercatori di ridurre il fenomeno della stregoneria a un semplice delirio biochimico, ignorandone le implicazioni storiche, sociali, antropologiche e religiose. A tale proposito non bisogna dimenticare che le radici di questo fenomeno affondano nei culti rurali e magico-religiosi dell’antichità (alcuni studiosi considerano il fenomeno della stregoneria alla stregua di una vera e propria forma d’eresia).

Alcuni Autori, in opere dedicate alla stregoneria medievale citano anche l’impiego della Datura: tale dato non è attendibile poiché l’introduzione in Europa di questa pianta è avvenuta solo verso la fine del XVI sec. (molte Solanaceae, specialmente quelle a uso alimentare, hanno un’origine americana). In antichità, un altro vegetale a effetto psicotropo impiegato nella preparazione di unguenti e pozioni (spesso miscelato a Giusquiamo, Mandragora e Belladonna) era l’Aconito. Questa pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, cresce nei luoghi boschivi (Aconitum lycoctonum (Ten.) Nyman, A. paniculatum Lam., A. variegatum L., ecc.), nei pascoli montani e negli ambienti rupestri (Aconitum napellus L., A. anthora L., ecc.). Tra i suoi componenti è possibile rintracciare una miscela di alcaloidi (tra cui aconitina, mesaconitina, ipaconitina e napellina) la cui ingestione provoca gravi alterazioni neurovegetative, con comparsa di nausea, vomito, tachicardia, disfunzioni vaso-motorie, allucinazioni e paralisi respiratoria. L’estratto di un Aconito originario del Nepal, Aconitum ferox Wall., e il Curaro, ricavato da varie specie di Strychnos (in particolare S. toxifera Schomb.) e di Chondodendron (principalmente C. tomentosum Ruiz & Pav.), sono considerati i veleni vegetali più potenti del mondo.

Tra le specie spontanee rampicanti, presenti negli ambienti boschivi e negli arbusteti, meritano una particolare attenzione la Brionia comune, chiamata anche Vite del diavolo (Bryonia dioica Jacq., appartenente alla famiglia delle Cucurbitaceae) e il Tamaro o Uva di serpe (Tamus communis L. della famiglia delle Dioscoreaceae): entrambe le piante sono velenose in tutte le loro parti, in particolare le radici e i frutti (costituiti da bacche carnose di colore rosso) contengono numerosi principi attivi (brionina, brionidina, diosgenina, yamogenina e vari composti saponinici) che a contatto con la pelle e le mucose provocano dermatiti e infiammazioni cutanee, mentre per ingestione sono responsabili di gravi disturbi gastrointestinali.

Un albero di particolare rilevanza botanica è il Tasso (Taxus baccata L.), chiamato anche “Albero della morte”; questa pianta, che predilige gli ambienti boschivi e le rupi ombreggiate, prevalentemente del settore montano, contiene in tutte le sue parti (compresi i semi) tassina, tassicotina e milossina. Solo l’arillo carnoso di colore rosso che avvolge il seme è commestibile e ha un sapore dolciastro. Utilizzato, in passato, per la sua azione cardiotonica, emmenagoga e abortiva, oggi il Tasso ha perso ogni considerazione nell’ambito della medicina popolare a causa della sua elevata tossicità. In ambito strettamente oncologico, invece, si utilizza un principio attivo (tassolo) isolato dalla corteccia del Tasso californiano (Taxus brevifolia Nutt.), il quale è stato inserito nei protocolli internazionali per la chemioterapia di alcune forme tumorali (in particolare del carcinoma della mammella e dell’avario).

Un’altra pianta velenosa è il Veratro (Veratrum nigrum L. e V. album L.), una specie erbacea perenne attualmente inquadrata nella famiglia delle Menianthaceae (fino a poco tempo fa era considerata una Liliacea), esclusiva dei pascoli e dei luoghi boschivi montani. Contiene una miscela di alcaloidi, la cui ingestione provoca nausea, vomito, dolori addominali, contrazioni muscolari e gravi alterazioni cardio-circolatorie. Sono frequenti casi d’intossicazione dovuti alla possibilità di confondere i rizomi di Veratro con le radici di Genziana maggiore (Genziana lutea L.), frequentemente impiegate per aromatizzare le grappe. In condizioni sterili (le infiorescenze sono molto diverse!) la differenza tra le due piante deve essere ricercata nella morfologia fogliare e nella diversa disposizione dei fasci del tessuto radicale (al contrio della Genziana, il Veratro ha le foglie alterne, con nervature parallele e i fasci della radici strutturati in maniera disordinata).

Tra le Convallariaceae abbiamo il famoso Mughetto (Convallaria majalis L.) (fino a poco tempo fa era classificato come Liliacea), il quale vive negli ambienti boschivi, negli arbusteti e nelle pietraie, ed è caratterizzato dalla presenza di una miscela di glucosidi cardioattivi (tra cui convallotossina, convallatoxoside e convallatoxolo) e saponinici (convallamarina e convallarina), responsabili, in caso di avvelenamento, di nausea, vomito, dolori addominali, astenia, vertigini, cefalea e gravi disturbi cardiocircolatori. Gli stessi effetti tossici sono provocati dal Gigaro o Pan di serpe (Arum italicum L. A. maculatum L., A. lucanum Cavara & Grande e A. pictum L. fil.), una pianta erbacea velenosa appartenente alla famiglia delle Araceae, diffusa nei boschi mesofili, arbusteti, scarpate e margini di strade. Tutte le sue parti, in particolare i frutti (costituiti da bacche di colore rosso riunite in dense infruttescenze di forma allungata) contengono aroina, varie saponine e un glucoside dell’acido cianidrico.

Molto diffuso nei giardini è il Ricino (Ricinus communis L.), una specie erbacea della famiglia delle Euphorbiaceae. I suoi semi sono ricchi di ricinina (una sostanza che ha il potere di agglutinare i globuli rossi: la dose letale per un bambino è quella contenuta in circa 6-7 semi), la cui ingestione provoca nausea, vomito, vertigine, cefalea, e forti dolori gastro-intestinali, accompagnati da scariche diarroiche sanguinolenti. Il famoso “olio di ricino” è ottenuto per spremitura a freddo: una tecnica d’estrazione che impedisce il passaggio di ricinina nel prodotto finale. Un gruppo di composti particolarmente abbondanti nel regno vegetale è rappresentato dai glicosidi cianogenetici, di per sé poco tossici, ma pericolosi poiché dalla loro degradazione si ottengono zucchero (in genere glucosio) e cianidrina; quest’ultima a sua volta, per scissione, da origine a un potentissimo veleno: l’acido cianidrico. Percentuali variabili di composti cianogenetici (localizzati nelle foglie e nei semi) sono presenti in numerose specie appartenenti alla Famiglia delle Rosaceae, come ad esempio il Lauroceraso (Prunus laurocerasus L.), il Mandorlo (Prunus dulcis (Miller) D. A. Webb varietà amara), l’Agazzino (Pyracantha coccinea M. J. Roemer), il Pesco (Prunus persica (L.) Batsch) e vari tipi di Ciliegio (Prunus avium L., P. cerasus L. , P. mahaleb L., ecc.).

Un’altra famiglia particolarmente ricca di specie velenose è quella delle Ranunculacae: oltre all’Aconito, già citato, include numerose piante cosiddette segetali (comuni nei campi coltivati) come l’Adonide, chiamata anche Occhio del diavolo (Adonis annua L., A. aestivalis L., A. flammea Jacq. ecc.) e la Consolida o Erba cornetta (Consolida regalis L.). Mentre negli ambienti boschivi troviamo l’Erba di San Cristoforo (Actea spicata L.), l’Anemone (Anemone nemorosa L., A. trifola L., A. ranuncolides L. , A. apennina L. ecc.), l’Aquilegia (Aquilegia vulgaris L.), l’Epatica (Hepatica nobilis Schreber) e l’Elleboro (Helleborus bocconei L., H. foetidus L., H. niger L., ecc.), quest’ultima pianta predilige anche i margini di bosco, radure, scarpate e pascoli. Tra le rampicanti, oltre alla Vitalba comune (Clematis vitalba L.), caratterizzata dalla presenza di una quantità ridotta di principi attivi tossici di natura termolabile (i suoi germogli lessati vengono impiegati nella preparazione di frittate e risotti), si possono segnalare due specie consimili più rare, Clematis viticella L. e C. flammula L., nelle quali sono rintracciabili alcaloidi e saponine in quantità tale da escluderne l’impiego alimentare.

Un’altra pianta segetale, la cui diffusione è in forte contrazione a causa dell’evoluzione delle tecniche colturali (uso massiccio di diserbanti e pulitura meccanizzata delle sementi), è il famoso Gitaione (Agrostemma githago L.) appartenente alla famiglia delle Caryophyllaceae. I suoi semi, anche in piccolissime quantità, miscelati ai cereali da panificazione possono provocare gravi intossicazioni alimentari. Tra le Caprifoliaceae una particolare attenzione deve essere rivolta all’Ebbio (Sambucus ebulus L.): i suoi frutti sono ricchi di glicosidi cianogenetici e saponine. Questa specie si distingue dal comune Sambuco (Sambucus nigra L.) per la mancanza di fusti e rami legnosi e per le infruttescenze erette. Anche le Rhamnaceae annoverano piante velenose, come ad esempio lo Spino cervino (Rhamnus catartica L.) i cui i frutti (e corteccia) contengono antrachinoni (ramnoxantina, ramnoemodina e ramnocatartina) responsabili, per la loro potente azione lassativa, di nausea, vomito e intensi dolori addominali.

E ancora, tra le numerose specie diffuse negli ambienti naturali, nei giardini e nei parchi pubblici, abbiamo il Bosso (Buxus sempervirens L.), il Laurotino (Viburnum tinus L.), l’Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), il Ligustro (Ligustrum vulgare L., L. lucidum Aiton, L. japonicum Thunberg, ecc.) e piante appartenenti al genere Lonicera (Lonicera caprifolium L., L. xilosteum L., L. japonica Thunberg, ecc. ). Fortunatamente molte di queste piante presentano organi di consistenza coriacea, spinosi o di sapore amaro: ciò costituisce un efficace deterrente naturale.

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