“Scrivere è un atto di superbia”, confida a Nicola Lagioia, Premio Strega 2015, l’autrice de L’amica geniale, una tetralogia di duemila pagine, autentico fenomeno letterario degli ultimi anni. È la penna "fantasma" che si nasconde sotto lo pseudonimo di Elena Ferrante, di cui da anni, pubblico e critica, cercano di scoprire l’identità. Identità che ultimamente sembra essere stata svelata. La Ferrante è davvero Anita Raja? Sembrerebbe proprio di sì. Eppure l’elegante traduttrice di Kafka non si esprime in merito e la Ferrante ancora non ha un volto. Ma è davvero così importante che una penna abbia un volto?

Si dice che leggere è, contemporaneamente, un'operazione attiva e passiva. Un'attività che impegna il lettore su due distinti livelli: uno superficiale, in cui l'autore è ancora in qualche modo anfitrione di se stesso e accompagna il lettore nel recinto della storia. È quasi una presenza avvertita, un cuoco che siede al tavolo con i suoi commensali. Ma c’è anche un livello più profondo di narrazione, più coinvolgente: è il momento in cui l'autore esce di scena, e sono i personaggi a trascinare il lettore nell'abisso della storia. È questa Elena Ferrante. È da qui giù che vi scrivo.

È da qui che vorrei continuare ad amare la Ferrante, al riparo dai flash dei fotografi. Ho ancora tra le mani l’ultimo volume della tetralogia dell’Amica Geniale e vago ancora per il rione S. Ferdinando di Napoli alla ricerca di due bambine: Lila ed Elena. Sono loro le protagoniste della lunga storia che, nella cornice di una Napoli degli anni cinquanta, conoscono tutte le crudeltà e i rischi di un quartiere incredibile, affamato e sazio al tempo stesso: affamato di sogni e saturo di cattiveria umana. La vita porta le due protagoniste in direzioni opposte, eppure un filo invisibile le tiene sempre legate. Come se la distanza, tra loro, si riducesse man mano che il loro destino le allontana. Come se le continue perdite e conquiste, le infinite amarezze e illusioni delle loro vite distinte, raccontassero di un’unica identità. Chissà se, dietro quelle pagine, in quel quartiere, non si nasconde la biografia della scrittrice.

Ma quello che in molti si chiedono, è quale possa essere il motivo di tanta segretezza; perché mai la Ferrante, una delle autrici più amate al mondo, continua a occultare la sua identità. Personalmente non mi ha mai tanto incuriosito scoprire chi fosse la Ferrante. Piuttosto mi chiedo perché la Ferrante continui a nascondere il suo volto. Perché un fenomeno letterario di queste proporzioni, rifiuti di orientare su sé stessa le luci della ribalta. La scelta dell’autore di un’opera di restare anonimo, in realtà, è tutt’altro che isolata in letteratura. Nel 1847 i tre fratelli Ellis, Acton e Currer Bell (erano gli pseudonimi dietro cui si nascondevano le tre sorelle: Charlotte, Emily e Anne Brontë ) pubblicavano rispettivamente Jane Eyre, Cime Tempestose e La signora di Widfell Hall, scuotendo così sia la coscienza sociale che il mondo editoriale dell’epoca. Nascere donna, in uno sperduto villaggio di campagna dello Yorkshire, in una famiglia numerosa, non serviva certo a rendere più agevole la via del successo.

Ma se duecento anni fa l’anonimato poteva avere un senso, oggi è difficile coglierne le ragioni. In una società che ci vede impegnati, quotidianamente, con la tastiera di un cellulare tra le mani, a costruire profili accattivanti su Facebook o Instagram, a montare, in questo modo, piccoli palcoscenici virtuali, per rubare attimi di visibilità, ha dell’incredibile la scelta di un autore di successo di restare anonimo. Mettere al mondo un’opera che diventa un best seller, con tutte le ansie, le speranze e i dolori di un vero parto e resistere alla naturale vanità di ogni madre (farsi fotografare con la sua creatura in grembo) sembra non avere spiegazioni. Provo comunque a darmi alcune risposte.

Una prima spiegazione, forse la più cinica, potrebbe annidarsi dentro i numeri di quel successo editoriale. I quattro libri de L’amica geniale hanno venduto oltre 200 mila copie in Italia, e gli altri tre libri della tetralogia, hanno già venduto centotrentamila copie nei soli Stati Uniti d’America. L’autrice, con i suoi romanzi, è ormai un fenomeno in Francia (con Gallimard), in Danimarca, Svezia e Norvegia. Dopo la trasposizione cinematografica di alcune opere (come L’amore molesto e I giorni dell’abbandono), con la regia, rispettivamente, di Martone e Faenza, ci attendono anche serie televisive, ispirate a quei lavori, con la produzione di Fandango e Rai Fiction: sei episodi sceneggiati da un team d’autore di tutto rispetto, guidato dal premio Strega 2014 Francesco Piccolo. Se i dati sono questi, si potrebbe pensare, a voler essere malevoli, che la curiosità del pubblico, per la Ferrante, sia alimentata proprio dalla scelta dell’anonimato: una ben congegnata strategia di marketing, che regge sul mistero dell’identità dell’autore.

Ma la tesi non regge. L’ipotesi dell’anonimato, come scelta editoriale per conquistare il pubblico, non vale per la Ferrante. Non fa giustizia degli apprezzamenti, di pubblico e di critica, che ormai riscuote a livello mondiale. Chi ha letto un libro della Ferrante scopre fin dalle prime pagine, che quella “penna” è davvero magica: ti spinge negli abissi della narrazione, come solo un grande scrittore sa fare. Ti lega a doppio a filo alla storia dei personaggi, ti costringe a una lettura compulsiva, che non ha altra spiegazione, appunto, se non la maestria di quella “penna”.

Evidentemente, quindi, la scelta di indossare un “burqa letterario”, per la Ferrante, ha altre ragioni. Forse è una barriera che l’autrice ha voluto costruire a difesa della sua stessa vita privata. Un tentativo estremo di non diventare oggetto di interesse mediatico, al pari dei suoi libri posizionati tra gli scaffali dei best seller, in tutto il mondo. In fondo è una spiegazione che ci fornisce la stessa Ferrante, nell’epistolario Frantumaglia: “ora che quell’organismo ha, nel bene e nel male, un suo equilibrio autosufficiente, perché dovrei affidarmi ai media? […] Se si cede, almeno in teoria, si accetta che l’intera persona, con tutte le sue esperienze e i suoi affetti, sia posta in vendita insieme al libro”. Insomma sembrerebbe che la Ferrante voglia solo tutelare la sua privacy. Non sarebbe d’altronde il primo esempio di anonimato, a tutela dell’incolumità dell’artista. Penso agli street artist, che devono all’anonimato la loro stessa sopravvivenza.

Ma c’è anche, forse, un’altra ragione, alla base del rifiuto della Ferrante di diventare personaggio pubblico ed è la spiegazione che mi piace di più. Credo che la scelta dell’anonimato, nel suo caso, sia racchiusa in una sorta di pirandelliano suicidio dell’autore, per dar vita ai personaggi. È la stessa Ferrante che ci porta su questa strada nell’epistolario Frantumaglia: “Mi limiterò a dire che si tratta di una piccola scommessa con me stessa, con le mie convinzioni. Credo che i libri, una volta scritti, non abbiano bisogno dei loro autori. Se hanno qualcosa da dire, prima o dopo troveranno dei lettori. In caso contrario non succederà”.

Dunque i libri della Ferrante, i suoi personaggi, diventano organismo autonomo, che vivono di vita propria e non già all’ombra dell’autrice. Tutto ciò, per altro, con illustri precedenti sia nell’epica, che nella lirica: l’arguzia e il coraggio di Ulisse, la forza innaturale di Achille, hanno affascinato generazioni di lettori, senza che di Omero ancora oggi si sappia nulla e la storia di Romeo e Giulietta ha appassionato platee di amanti, senza che fosse noto chi si celava dietro lo pseudonimo di Shakespeare.

Forse ha ragione la Ferrante quando dice: “Chi ama veramente la letteratura è come una persona di fede. Il credente sa bene che, sul Gesù che davvero per lui conta, all'anagrafe non c'è un bel nulla”.