Cos’è, oggi, l’uomo? In realtà v’è un interrogativo che affligge l’uomo da più tempo, alludo in tal senso alla ricerca dello specifico dell’uomo. Hegel, già nei suoi scritti filosofici giovanili, sosteneva che l’uomo non ha una sua essenza, non ha una sua determinazione stabile. Tale affermazione toglie ogni pretesa di stabilizzazione dell’essenza umana e mette consapevolezza del carattere di universalità dell’uomo (la sua vivente natura); cioè non ci si può discostare dal dire che l’uomo è un essere vivente, non si può affermare altro. L’uomo prende atto del suo continuo modificarsi (perenne mutamento).

“L’uomo è un animale non ancora stabilizzato”. Così scrive Nietzsche in Umano troppo umano. E la ragione è molto semplice. L’uomo è privo di istinti che sono risposte “rigide” agli stimoli. Privo della rigida stabilità garantita dalla codificazione istintuale, l’uomo è libero. La libertà, infatti, non scende dal cielo e tanto meno è una prerogativa dell’anima o della volontà o del discernimento. Essa scaturisce da quella mancanza di codici istintuali che vincolano gli animali dalla loro nascita alla loro morte e lasciano libero l’uomo nella costruzione e nella conduzione della propria vita, che nessun codice biologico governa.

Ma l’instabilità che così ne nasce è inquietante, perché non concede la prevedibilità dei comportamenti, la consequenzialità delle azioni, e quindi la creazione di un mondo comune e condiviso. Per questo gli uomini, per difendersi dall’instabilità dovuta alla mancanza di codici istintuali, si sono dati codici logici e codici morali. Logici sono quei codici regolati dal principio di non contraddizione, che sottrae ogni cosa all’ambivalenza di significato di cui è carica, per de-terminarla in una significazione univoca e da chiunque condivisa, e dal principio di causalità, per cui gli eventi non appaiono più come accadimenti imprevedibili e perciò angoscianti, ma come effetti previsti una volta che se ne conosce la causa.

La logica, ideata in ambito filosofico e applicata in ambito scientifico, è stata la prima forma di stabilizzazione del pensiero e del linguaggio che ha consentito agli uomini di intendersi e di comunicare tra loro. Ma oltre al pensiero e al linguaggio andava stabilizzato anche il comportamento. E la cosa avvenne prima con i tabù che segnalavano le azioni proibite, poi con i precetti e i comandamenti di cui si nutrono tutte le morali, siano esse ancorate al volere di Dio o convenute tra gli uomini per ridurre gli spazi di conflittualità e garantire la pace, che è la condizione preliminare di ogni progresso e avanzamento di civiltà.

La logica da un lato e la morale dall’altro sono state le due grandi macchine di stabilizzazione della vicenda umana che l’instabilità biologica, dovuta alla mancanza di un rigido codice istintuale, non era in grado di garantire, mettendo a rischio l’esperimento umano che, senza regole poteva naufragare miseramente fin dall’alba della sua comparsa. Così hanno pensato Platone, Tommaso d’Aquino, Hobbes, Kant, Herder, Nietzsche e nel secolo scorso Bergson e Gehlen. Ma oggi, noi occidentali viviamo in un’epoca che siamo soliti chiamare: “Età della tecnica” dove l’uomo sembra sempre più identificato come funzionario dell’apparato tecnico cui appartiene o, per dirla con Heidegger, sempre più “im-piegato”.

L’efficienza e la produttività, nonché l’egemonia della ragione strumentale, che si cura solo del rapporto ottimale tra mezzi e fini (unica forma di pensiero vigente nell’età della tecnica), visualizza le persone alla stregua di qualsiasi mezzo utile a raggiungere gli scopi prefissati, e perciò ne parla come di risorse: “Risorse umane”.

Siccome in ogni apparato tecnico tutti i settori devono funzionare in perfetto coordinamento in un regime di continuità senza interruzione, non importa se l’apparato è una catena di montaggio, un’organizzazione aziendale, un assetto amministrativo, una rete telematica, a ciascuno verrà assegnato il proprio “mansionario”, che è una serie di azioni descritte e prescritte da eseguire, dove gli unici valori riconosciuti sono la funzionalità e l’efficienza, per garantire i quali, è prevista la sostituibilità della persona, come si sostituisce l’ingranaggio di una macchina perché, come ci ricorda Gunther Anders ne "L’uomo è antiquato" è ormai la macchina il modello cui deve adeguarsi l’uomo.

Per garantirsi funzionalità ed efficienza qualsiasi apparato tecnico mal sopporta quegli “inconvenienti umani” che sono la stanchezza, la depressione, gli amori con il loro corredo di esaltazione e disperazione, la malattia, la maternità, e in generale tutti quegli aspetti del mondo della vita che confliggono con la regolarità, l’impersonalità e l’efficienza di un perfetto funzionamento, a cui è stata assegnata quella deprecabile denominazione che è “professionalità”, sotto la quale ciò che si nasconde è la radicale riduzione dell’uomo alla sua “funzione”, di cui il biglietto da visita, che indica il nostro apparato di appartenenza, ci identifica meglio del nostro nome.

La stabilizzazione realizzata dall’età della tecnica fa impallidire tutte le morali e i loro strenui tentativi di dare una stabilità ai comportamenti umani. Questa è la ragione per cui, almeno in Occidente, i comportamenti morali vengono disattesi, perché una regola più ferrea della regola morale è subentrata a stabilizzare le umane condotte. Ad annullare le differenze residue, in cui gli uomini possono reperire un briciolo della loro individualità, provvede la tecnica della comunicazione che, con la radio, la televisione, Internet, produce quel mondo omogeneo e quei comportamenti all’insegna del conformismo per cui, come già avvertiva Nietzsche: “Quando tutti pensano allo stesso modo e agiscono allo stesso modo, chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”.

Heghel coglie in pieno lo stato di inessenzialità dell’uomo, e anche se da quel momento in poi vi saranno ripetuti tentativi di definire il proprio dell’uomo (Scheler, Ghelen, Plessner) saranno comunque pervasi dal Gradualismo (Darwinismo) e ciò a testimonianza del fatto che i filosofi incentravano il proprio discorso in ogni caso sull’uomo inteso come divenire, mutamento.

L’uomo è un vivente, è un organismo che sente ed è esposto (ex-posto = posto fuori), e che al di là degli accidenti (accidens) che determinano il sentire non v’è null’altro di essenziale; di essenziale v’è solo il mutamento del sentire. Il sentire, il patire sono i segni del mutare. A mutare è il corpo (non materia ma organismo, cioè struttura organizzata secondo una disposizione).

“La passione è democratica”, infatti, è l’unica condizione che accomuna l’umanità, in quanto, ogni individuo prima di essere un soggetto di (attività) è un soggetto a (passività). La passività è la condizione ontologica propria all’ente-uomo, in altre parole è la condizione propria all’uomo in quanto tale. La passione è tutto ciò che entra in noi, ci penetra (in quanto siamo esposti, aperti passivamente al sentire il mondo), ci abita, e dopodiché fuoriesce in diverso modo (comportamenti, affetti, ragione. Quest’ultima altro non è che uno stato di relazione tra diverse passioni) per mezzo della nostra azione.

La passione costitutiva (cioè il sentire comunque, l’essere soggetti a…) è il mutamento, la differenza che non è altro che il tempo. Il sentire produce differenza (cenestesi), e siamo vivi perché sentiamo la differenza, il cambiamento, il mutamento da uno stato all’altro (es.: il passaggio dalla tristezza alla felicità).

La differenza è prodotta dal tempo e dal suo mutare costante. Siamo passivi rispetto al tempo, lo subiamo non possiamo fermarlo. Rispetto a tale passione l’azione altro non è che un tentativo di organizzare il mutamento. Il mutamento, differenza, la perdita viene controbilanciata dalla nostra re-azione che ci lega al passato, al mutamento avvenuto, ci porta ad affettivizzare il perduto (non per niente amiamo solo ciò che perdiamo man mano che tale perdita si concreta: l’amore è paura di perdere. Amare significa fermare, quindi tentare di bloccare il mutamento; ne scaturiscono alcune passioni: il piacere, cioè il tentativo di fermare il passato; il dolore, in altre parole il vivere, il mutamento).

La totalità esteriore è affetta dallo scorrere del tempo, il cui incedere maestoso equivale al mutamento che comporta la perdita di corpo, la perdita di sé. Il problema è il corpo organico. Il corpo è organismo è ci è stato dato, non è stato creato da noi. In tal modo prende piede la vergogna del corpo. Passione a cui si può reagire facendo a meno del corpo, non in quanto corpo, ma in quanto organismo.

Occorre ri-progettare il corpo, creando un corpo non organico, non esposto alla passione del mutamento, alla perdita. La soluzione al problema precedentemente esposto potrebbe essere la corporeità macchinina: l’uomo come macchina, ipotesi che ci toglierebbe dalla vergogna, dal mutamento, dalla perdita di sé.

La risultante sarebbe l’homo creator naturae (e non più homo creator culturae), ovvero quell’uomo che costruisce la sua natura con l’effetto di liberarsi dalla vergogna. L’organico è una perdita di tempo, quindi di corpo. Perdita che si attualizza repentinamente, ecco perché non c’è tempo per le passioni, la passione è perdita di tempo: all’orizzonte si staglia la figura dell’homo apaticus. L’uomo tenta di respingere l’assalto del tempo, e lo fa con l’accelerazione dei ritmi di vita, rendendoli più frenetici, e provocando uno schiacciamento sul presente. L’uomo tenta disperatamente di ridurre il tempo della differenza (passione), le differenze perdono di qualità e aumentano vertiginosamente in quantità. Il tempo si frammenta in una infinita successione di istanti, di schegge temporali infinitesime. Alle passioni si sostituiscono emozioni, pulsioni che danno il via a un gioco ripetitivo stimolo-risposta che non lascia traccia (tempo).