Insidioso è il crinale lungo cui si muove incerto chi è colpito dalla perdita di una persona cara; ostinato e implacabile brucia dentro di lui il desiderio di lasciarsi cadere lungo la china della disperazione e di arrendersi all'angoscia, mentre inutilmente gravoso pare ogni tentativo di mantenere saldo il passo per evitare di precipitare nel baratro.

È sull'orlo di questo crinale che i versi di apertura del XVIII libro dell'Iliade ritraggono Achille, facendone la perfetta incarnazione – la prima della letteratura occidentale – di quella che l'antropologo e religionista campano Ernesto De Martino definì come “crisi irrisolvente”, vale a dire quella fase iniziale del cordoglio nella quale il dolore sconfina pericolosamente nella follia e il rimorso di vivere rischia di trasformarsi in un'irreparabile volontà di auto-annientamento. Così appare Achille, dopo aver appreso con sgomento che i funesti presagi da tempo nutriti dal suo cuore si sono tristemente avverati: l'amato Patroclo giace nudo sul campo di battaglia, brutalmente privato del respiro e delle armi. Si prostra a terra il glorioso figlio di Peleo, sopraffatto da uno strazio sordo e implacabile, con l'unico desiderio di seguire l'amico nell'Ade: con entrambe le mani raccoglie la cenere insudiciandosene il capo e la veste perché è sulla pira funebre che anch'egli vuole essere disteso, inerte giace nella polvere come se non desiderasse altro che di essere a sua volta inumato, inconsolabile grida e geme strappandosi i capelli (vv. 22-27).

Eppure, ciò che accade subito dopo rappresenta sorprendentemente l'inizio della svolta, il primo passo del cammino che a poco a poco aiuterà Achille a risalire quella china di disperazione, che gli insegnerà come mettersi in salvo da quel baratro. Nello stringersi delle schiave intorno all'eroe, infatti, è già emblematicamente riconoscibile quel tratto di “coralità” che fu il marchio distintivo di tutte le strategie messe in campo dagli antichi per far fronte alla minaccia rappresentata dall'irrompere della morte e che consentì loro di imparare a dare un senso persino all'evento ultimo, quello di fronte al quale ogni essere umano, lasciato solo, non può che soccombere. Nell'acuto ululare delle donne, nel loro battersi accoratamente il petto, nello sciogliersi delle loro ginocchia (vv. 28-31) si trova puntualmente riflesso il nucleo originario di una ritualità del compianto che tutta s'innestava su quella crisi iniziale, spontanea e violenta, che di essa abbracciava persino le manifestazioni più estreme e drammatiche, ma che mitigandole le incanalava in un'ordinata sequenza di gesti codificati ad arte e periodicamente reiterati alla presenza salda e immancabile dell'intera comunità, in un orizzonte consolante e protettivo di condivisione che solo poteva stemperarne la devastante carica emotiva (è la vicinanza di Antiloco, nobile figlio di Nestore, ad impedire che Achille si tagli la gola col ferro, vv. 32-34) e che costituiva al tempo stesso una straordinaria occasione di riscoperta e celebrazione dei valori sui quali la vita dell'intera collettività si fondava.

Secondo De Martino, è precisamente questa la funzione della sequenza di immagini preziosamente istoriate sullo scudo che la dea Teti chiede ad Efesto di forgiare per il figlio, affinché insieme alla nuova armatura egli si riappropri anche della sua identità e del suo ruolo in seno all'esercito acheo. Un'opera di assoluta magnificenza, una magistrale combinazione cromatica di metalli, una sapiente distribuzione di temi narrativi all'interno di cinque fasce concentriche. Al centro la terra e il mare, il cielo con l'infaticabile sole, la luna piena e gli astri, l'universo in tutta la sua grandiosa e stabile permanenza. Poi il ritratto di una città in pace, nella quale i momenti giubilanti di una festa di nozze si accompagnano allo svolgimento di un processo nel rispetto delle leggi e della giustizia; e quello di una seconda città straziata dalla guerra, che all'esterno delle sue mura vede contrapporsi l'esercito cittadino alle forze nemiche. E ancora un terreno alacremente arato dai contadini, la paziente mietitura in un campo di grano, cortei di fanciulli e fanciulle che raccolgono i grappoli maturi in una vigna; pastori a sorvegliare sulle mandrie e pascoli fitti di greggi. E di nuovo una festa, la folla che assiste, danze armoniose e acrobazie. Infine, la corrente impetuosa di Oceano a contenere tutto, a delimitare la soglia dell'ignoto.

Una straordinaria sintesi del mondo, un connubio perfetto tra le inesauribili potenze della natura e l'instancabile lavoro dell'uomo; una raffigurazione efficace dell'eterno scorrere della vita nella quale arriva ad essere perfettamente ricompresa e reintegrata persino la morte, quella di ogni frutto della terra che il costante ripetersi dei ritmi stagionali accompagna col suo inarrestabile alternarsi di silenzi e risvegli, di scomparse e ritorni, quella di ogni essere umano che il gruppo insegna a riconoscere sensata nella misura in cui impara a sentirsi parte di un più ampio ordine cosmico che tutto e tutti racchiude. Molto più di un mero inserto descrittivo (lo spazio dedicato alla realizzazione dello scudo è stato sempre considerato come uno dei primi esempi di ekphrasis, di presentazione di un'opera figurativa in un contesto letterario), il manufatto divino finisce così per assolvere una funzione epica essenziale; osservandolo, infatti, Achille si stacca finalmente da quell'abbraccio mortifero alle spoglie di Patroclo nel quale la madre al suo arrivo lo trova avvinto (XIX, vv. 4-5), imbracciandolo sceglie di rinunciare all'oscura desolazione cui si era votato per risvegliarsi alla vita della quale le sue nuove armi si fanno splendido e sonante simbolo.

Certo, ci vorrà del tempo. Achille rimane l'eroe degli eccessi, irraggiungibile nella gloria, impareggiabile nell'ira, ineguagliabile in una sofferenza che faticherà ad esaurirsi, che travalicherà i confini del rito e non si tratterrà neppure dall'infierire orrendamente sul cadavere di Ettore, che dell'uccisione di Patroclo si è reso colpevole. Fino a quando quella luce che il dono di Teti e di Efesto gli ha riacceso dentro non gli consentirà di aprirsi alle lacrime di Priamo venuto coraggiosamente a reclamare il corpo del figlio, di vedere riflessa nell'afflizione di quel padre la sua stessa afflizione, dando prova del più grande eroismo nell'accettazione del comune destino indistintamente riservato a ciascuno.