Fremente d'ira, Laocoonte si precipita giù dalla rocca come una furia e si staglia dinnanzi all'enorme cavallo di legno. “Temo i Danai, anche quando portano doni” (Eneide II 49-50) grida furioso, tentando disperatamente di mettere in guardia i Troiani, di distoglierli dal folle proposito di introdurre all'interno delle mura della città l'omaggio ferale che i nemici hanno inspiegabilmente trascinato fino a lì. Ma perché? Cosa agli occhi del sacerdote non può che inficiare lo strano gesto compiuto dai Greci?

“Il dare e il ricevere formano il tessuto stesso di ogni vita, fin dalla prima sorsata di latte materno”, così scrive Jean Starobinski nel suo A piene mani: dono fastoso, dono perverso a proposito di un fenomeno straordinario e articolato quale quello del circuito donativo, talmente essenziale nell'intrecciarsi di tutta quella rete di vincoli che saldano l'individuo ai propri gruppi di appartenenza da aver rappresentato nel corso del tempo uno degli snodi classici del pensiero sociale; di esso, poi, l'antropologia culturale ha avuto il grande merito di aver decifrato ed esplicitato la natura paradossale, di aver fortemente ribadito il carattere ambivalente, disinteressato e obbligante allo stesso tempo, nella piena consapevolezza di come il suo sottrarsi ad una logica strettamente utilitaristica non ne faccia automaticamente una pratica gratuita, ma di come anzi proprio nel sorprendente concatenarsi di una libertà che spontaneamente sceglie di dare e di un sentimento di riconoscenza che moralmente ingiunge di restituire risieda l'assoluta specificità di una prassi efficace come nessun'altra nella paziente costruzione di legami.

Nondimeno, proprio in ragione di tale costitutiva complessità, la filosofia politica e le scienze umane non hanno mai smesso di richiamare l'attenzione sugli oscuri risvolti che potenzialmente si nascondono in ogni atto di donazione, sulle pericolose degenerazioni cui esso può dare origine ogniqualvolta non soddisfi il criterio primario e irrinunciabile di una reciprocità condivisa che dell'autentico donare è condizione imprescindibile.

Dai lontani prototipi della pubblica elargizione che in epoca romana prìncipi e cittadini ragguardevoli attuavano in varie occasioni festive (diffuse nell'antichità erano pratiche quali la largitio, che prevedeva l'organizzazione di mense pubbliche o la concessione di terre e regalie, e la sparsio, che consisteva nel lancio di cibo o di denaro a beneficio della folla radunatasi per i giochi popolari) alla più tarda consuetudine condivisa dagli stessi imperatori cristiani o dai membri della nobiltà e del clero di distribuire al popolo beni di consumo o monete; dalla forma di esaltazione teologica della figura del povero che in epoca medievale individuò nella carità uno degli strumenti preferenziali di auto-purificazione e auto-elevazione spirituale, passando per il secolo dei Lumi e la sua filantropia, per arrivare alla moderna beneficenza privata e a certe politiche assistenziali; di questi e di molti altri esempi riferisce Starobinski nella sua preziosa e puntualissima ricerca, nell'intento di mostrarne l'identica estraneità a gesti di dono che possano davvero dirsi tali.

Attestando gli uni le derive di un potere che attraverso la spettacolarizzazione della sua munificenza mirava a rafforzare la propria autorità, smascherando gli altri il confine spesso troppo sottile tra generosità e autocompiacimento, tutti indistintamente denunciano il fallimento cui è inesorabilmente destinata ogni procedura impersonale e generalizzata di elargizione che non miri ad instaurare relazioni autentiche, che dia vita a gerarchie sociali ed economiche senza preoccuparsi di risolvere la condizione di bisogno di coloro cui è rivolta, che trasformi i riceventi in debitori impotenti poiché non contempla l'indispensabile restituzione di un contro-dono.

Secondo il primo e il più grande teorizzatore dell'antropologia del dono, Marcel Mauss, gli oggetti donati, percettibili ai sensi e tutt'altro che inerti, avrebbero la capacità di intervenire nei meccanismi di scambio e di influenzare in maniera significativa l'agire dei soggetti coinvolti; lo spirito vitale di cui essi sarebbero animati (che, riprendendo una tradizione dei popoli Maori della Nuova Zelanda, egli chiama hau e che nelle credenze di molte tribù da lui osservate si originerebbe da una sorta di marchio identitario impresso loro dai rispettivi possessori), sarebbe in grado di veicolare l'intenzione dei donatori e di agire come una potente forza esterna, della quale i donatari potrebbero liberarsi procedendo alla dovuta restituzione, ma dalla quale al contrario rimarrebbero totalmente e irreparabilmente soggiogati nel caso tale controprestazione non fosse prevista, voluta, possibile.

Considerazioni queste che non possono non rimandare ad un orizzonte di pensiero ben più lontano e che, pur nel rispetto della distanza, sorprendono per le affinità che inevitabilmente evocano. Ciò che di straordinariamente curioso emerge, infatti, dagli studi linguistici di Emile Benveniste, è come già anticamente la lingua tenesse traccia della pericolosità insita in ogni tradimento di quell'agire reciproco di cui la dinamica del dono era ritenuta il paradigma assoluto. Tale era l'ambiguità semantica del greco dosis che, accanto al significato più diffuso di “dono”, aveva quello farmacologico di “dose” come “quantità correttamente misurata di medicinale” e insieme anche di “veleno”, di sostanza capace di ridonare equilibrio all'organismo e allo stesso tempo di disgregarlo mortalmente; la stessa ambiguità che apparteneva anche al germanico gift, a sua volta tanto “dono” quanto “veleno”.

A corrompere l'offerta del monumentale ligneo quadrupede, dunque, è il fatto stesso che siano stati i Danai a presentarla, contravvenendo nella maniera più subdola ed empia a quelle sacre leggi di ospitalità nel rispetto delle quali tempo addietro su quella stessa piana antistante la città di Troia il greco Diomede e il troiano Glauco avevano rinunciato a combattersi e si erano fatti mutuo dono delle rispettive armi rinnovando tra loro e le loro stirpi il patto più inviolabile; ad inquinarla irrimediabilmente il fatto che a tanta prodigalità non sia stata data possibilità alcuna di ricambiare. Questo solo sarebbe dovuto bastare a trattenere gli sprovveduti Troiani dall'accogliere quella costruzione mortifera, esattamente come avrebbe dovuto trattenere Epimeteo dall'accettare Pandora in sposa la coscienza dell'essere ella “tutta quanta un dono” degli dei, per natura impossibili da corrispondere, o come avrebbe dovuto trattenere la nuova consorte di Giasone dall'indossare il mantello letale a lei fatto recapitare da Medea la certezza che una donna rifiutata non può essere così incline al perdono.

Un invito esplicito a guardare con diffidenza ogni regalo per sfuggire alla potente carica distruttiva che può annidarvisi? Seppure tanti episodi della tradizione mitologica che si ritrovano all'origine della cultura occidentale paiano suggerirlo, nondimeno non può essere questa l'ultima parola su qualcosa di così profondamente iscritto dentro ciascuno e di così necessario alla realizzazione di una piena umanità. Contro ogni forma diabolica di concessione fatta dall'alto, di spinta aggressiva o narcisistica, di pulsione ingannevole, allora, ciò che non deve mai venire meno è quella lucida capacità di discernimento che consenta di fare del dono un momento di incontro tra due volontà realmente protese a realizzare l'una il bene dell'altra nell'ottica di un'autentica intesa umana.

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