Il tema della magia e dei suoi rapporti con la dimensione civile e sociale ha costituito nel mondo classico un argomento di dibattito giocato fra politica, religione, filosofia e giurisdizione. Roma ha intrapreso fin dagli albori della sua storia una guerra ideologica contro le dottrine e le arti occulte, osteggiate come strumenti sovversivi dell’ordine dello stato, una minaccia per l’integrità del sistema di valori civili e morali.

Le Leggi delle Dodici Tavole, il più antico codice legislativo romano, avevano già regolamentato questa materia, ma in tutti i successivi passaggi giuridici si procedette a una progressiva e ostinata opera di epurazione dalle superstizioni magiche, operata espellendo indovini, maghi e astrologi dalla città. Plinio il Vecchio aveva definito la magia una vanitas, “la più ingannevole delle arti”, un’impostura originata dall’incontro tra religione, astrologia e medicina. In epoca imperiale, in un crescendo di fobico rifiuto per amuleti, talismani e incantesimi, l’azione repressiva si intensificò: la manipolazione di pozioni e filtri fu equiparata al crimine di avvelenamento, e magi e mathematici vennero allontanati e torturati, e in casi seppure rarissimi sottoposti a esecuzioni capitali.

Tuttavia, sarebbe errato datare i primi processi per magia ai secoli avanzati dell’impero. Di un caso interessante siamo debitori allo storico Tito Livio: un episodio ambientato a Roma nel IV secolo a.C., che ha tutto il sapore di un processo ante litteram per stregoneria, di cui presenta caratteri straordinariamente simili. Un procedimento di massa, forse il primo documentato dalle fonti, e che ha per protagoniste sole donne. Nell’anno in cui si svolsero i fatti narrati da Livio, Roma era stata pesantemente colpita da un’epidemia. Un cupo clima di sospetto gravava in città e la ricerca di possibili “untori” sottolineava la necessità di individuare un capro espiatorio su cui scaricare il senso di colpa collettivo. Un’ancella mosse un’accusa pesante nei confronti di un gruppo di matrone, incolpate di preparare segretamente filtri venefici. I magistrati fecero irruzione nell’abitazione in cui le donne si riunivano, dove furono colte in flagranza di reato mentre preparavano i filtri; condotte nel Foro, si difesero sostenendo che si trattava di pozioni medicamentose (medicamenta salubria); furono allora invitate a provare tali medicine su se stesse pubblicamente, richiesta alla quale non si sottrassero. Sorprendentemente, morirono tutte quante, vittime, secondo le conclusioni dello storico, della loro stessa congiura. Furono immediatamente arrestate altre donne, le quali denunciarono a loro volta ulteriori complici: le condanne a morte furono in tutto quasi duecento.

Una “macchinazione di donne”, dunque, fu considerata la causa della sventura di un’intera città. Non vengono spiegate le ragioni di tale complotto; eppure, se la notizia fosse degna di credibilità, il tragico epilogo renderebbe la vicenda alquanto misteriosa. Il tratto più inquietante, tuttavia, risiede nella concatenazione delle denunce e nella condanna di un numero così rilevante di donne. Le matrone si erano difese giustificando i loro preparati come medicine salutari. Medicamenta o venena? L’ambigua essenza del farmaco dà sostanza al pernicioso spettro del sapere farmaceutico delle donne. L’accondiscendenza a ingerire i filtri preparati sembrerebbe lasciar supporre la buona fede delle accusate, che forse rimasero fatalmente vittime di un uso improprio di dosi o ingredienti; resta il fatto che questo episodio presenta infauste corrispondenze con le modalità di denuncia e condanna che vedremo emergere nei moderni processi alle streghe, che contribuiscono a gettare una luce ancora più sinistra su quello che potremmo considerare un primo episodio storico di caccia alle streghe.

Per una strana coincidenza, alcune fonti ci informano che in quello stesso periodo anche ad Atene si era svolto un processo per magia contro una donna: si tratta di Teoride di Lemno, una straniera nota per procurare filtri e pozioni, la quale venne giustiziata insieme a tutti i suoi famigliari al termine di un processo sommario. Molti secoli più tardi, la condanna di Teoride sarebbe stata strumentalizzata addirittura dal Malleus Maleficarum, il grande manuale quattrocentesco di caccia alle streghe, nel quale si affermava falsamente che la maga venne bruciata sul rogo per negromanzia: una prassi che sappiamo essere totalmente decontestualizzata rispetto al quadro storico. Nel tempo si radicò la convinzione, debitamente espressa da alcuni scrittori e filosofi, che l’inclinazione per la magia, ma soprattutto per il veneficio, fosse una caratteristica naturale delle donne, e che filtri e incantesimi delineassero l’alfabeto del linguaggio magico femminile.

L’operatrice di magia non perse mai del tutto gli antichi tratti mitici, e proprio nella fusione fra queste due dimensioni si è compiuto il passaggio fondamentale nella definizione della strega. Maleficae, veneficae e sagae erano considerate guaritrici ma anche avvelenatrici, e fu proprio questo terrore archetipico per la scienza femminile ad alimentare nei secoli successivi il motore del binomio accusatorio curare/“guastare”, che avrebbe guidato l’accanimento persecutorio degli inquisitori nei moderni processi per stregoneria. “La maga con canti promette di liberare le anime che vuole, e in altre gettare gli affanni”. Sono parole del poeta Virgilio che, a distanza di molto tempo, sarebbero riecheggiate sinistramente nel grido accusatorio della testimone di un processo per stregoneria, nella Modena del 1499:

“Chi sa guarire sa anche uccidere!”