La complessità è una presenza permanente sullo sfondo di ogni esperienza. Ma la complessità è solo la superficie: sotto vi sono le acque agitate del caos. La complessità è l’orlo del caos. È un confine, un luogo di transizione, di imprevedibili e misteriosi mescolamenti, una terra di nessuno che separa (e collega) le trincee ben fortificate dell’ordine e del caos1. Un luogo di transizione che Ovidio coglie con immagini potenti nell’incipit delle Metamorfosi:

Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l'aspetto della natura in tutto l'universo, e lo dissero Caos, mole informe e confusa, nient'altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate. Nessun Titano ancora donava al mondo la luce, né Febe crescendo ricolmava la sua falce, né la terra, trovato il proprio equilibrio, stava immersa e sospesa nell'aria, né Anfitrite aveva proteso le braccia a ricingere i lunghi orli della terraferma. E per quanto ci fosse la terra, e il mare, e l'aria, instabile era la terra, non navigabile l'onda, l'aria priva di luce: nulla riusciva a mantenere una sua forma, ogni cosa contrastava le altre, poiché nello stesso corpo il freddo lottava col caldo, l’umido con l'asciutto, il molle col duro, il peso con l'assenza di peso. Un dio, e una più benigna disposizione della natura, sanò questi contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde, e distinse dall'aria spessa il cielo puro. E dopo aver districato e liberato queste cose dall'ammasso informe, dissociatene le sedi, le riunì in un tutto concorde.

In questa formidabile pagina Ovidio riesce a esprimere il legame profondo che unisce caos, complessità e forma. Rileggiamola più attentamente:

  1. “Caos, mole informe confusa…ammasso di germi discordi di cose mal combinate” (in latino: Chaos, rudis indigestaque moles… non bene iunctarum discordia semina rerum). Il caos si presenta come un ammasso confuso, dove le cose non appaiono ancora formate. Vi sono solo germi, indizi di forme (semina rerum) che si combinano in modo innaturale.
  2. “Nulla riusciva a mantenere la sua forma” (Nulli sua forma manebat). Il caos è dinamico: ogni forma è instabile, provvisoria, appare e scompare. Le proprietà delle cose confliggono tra loro e non riescono a stare insieme all’interno di una forma permanente. Nessun criterio d’ordine può essere instaurato.
  3. “Un dio… dopo aver districato e liberato queste cose dall’ammasso informe… le riunì in un tutto concorde” (Hanc deus… quae postquam evolvit caecoque exemit acervo… concordi pace ligavit). L’azione del dio è quella di scegliere, districare dall’ammasso informe “le cose” e riunirle in una forma stabile e distinta.

È facile riconoscere nei versi di Ovidio il problema della conoscenza: come utilizzare i frammenti di esperienza, discordi tra loro, e come riunirli in un tutto concorde. Il dio di Ovidio, capace di riuscire nell’impresa di dare forma al mondo, è in realtà il sistema cognitivo di tutti noi (e, nelle debite proporzioni, di ogni vivente), che raccatta pezzi del mondo attraverso i sensi e li combina per dirigere, per quanto può, i processi vitali.

Ma come riuscire a distinguere le cose che galleggiano sul mare del caos? Il problema venne risolto dai filosofi greci in un modo brillante: ragionare per opposti: Gadamer così riassume la soluzione:

Gli uomini devono sempre esprimersi per opposti. Ciò dipende dal loro modo di orientarsi. Si conosce, per così dire, il chiaro e lo scuro, oppure il caldo e il freddo. Si tratta sempre di opposti; lo aveva già detto Anassimandro, uno dei filosofi di Mileto: gli opposti si equilibrano; questa è la nostra visione dell’ordine del mondo. Non c’è inverno che duri in eterno, non c’è estate che bruci tutto: esiste un ordine delle stagioni, un ordine… della notte e del giorno, ed è evidente – se solo pensiamo bene le cose – che tutto ciò è inscindibilmente connesso con l’ordine del mondo.

(Hans-George Gadamer, Lezioni di filosofia)

All’alba del pensiero razionale, riconoscere i frammenti e legarli tra loro per opposizione rappresentò una conquista formidabile. Tant’è che bisognerà attendere circa duemila anni perché emergesse un metodo diverso di conoscere, basato sull’idea di misurare grandezze che variano gradualmente, e con esso il metodo scientifico e il mondo moderno.

Ma ragionare per opposti è apparso fin da subito un approccio semplicistico. In realtà, gli schemi che normalmente utilizziamo per comprendere il mondo sono alquanto più articolati di quanto scoperto dai filosofi greci. Karl Weick ci fornisce una idea delle abilità cognitive messe in azione per dare un senso all’esperienza2.

Il primo passaggio, che richiama l’immagine di Ovidio, è la percezione delle differenze: “Quando si verificano delle differenze nella corrente di esperienza, l’attore può intraprendere delle azioni per isolare quei cambiamenti in modo da poterli osservare più da vicino. Evidenziare è una forma di enactment.”3.

Weick usa il termine enactment di difficile traduzione in italiano. Deriva da enact, che significa ‘attuare, istituire’, verbi che evidenziano il ruolo attivo del soggetto rispetto al mondo. Weick, con enactement, intende affermare che l’osservatore non è destinatario passivo dei dati dell’esperienza, ma ha un atteggiamento attivo e costruttivo. I fatti che l’osservatore ‘scopre’ sono il risultato di una ricerca in cui egli mette in gioco la propria esperienza passata, i propri desideri per il futuro e la consapevolezza della situazione presente. I fatti sono trovati perché sono stati ‘istituiti’ da una attività di ricerca.

Per spiegarmi con una metafora, i fatti dell’esperienza sono come Biancaneve svegliata dal bacio del principe. Senza l’intenzione di baciare e senza l’azione del bacio del principe, la principessa sarebbe ancora dormiente. Non ci sarebbe nessun fatto.

In conclusione, tradurrei il termine enactment con ‘attivazione’ e il verbo enact con ‘attivare’. L’enactment “offre semplicemente l’ambiguo materiale grezzo che potrà poi venir trattenuto o eliminato attraverso il processo di selezione”4. È solo il primo passo.

Il secondo passo è la selezione, che “comporta l’imposizione di varie strutture a manifestazioni ambigue costruite, nel tentativo di ridurre la loro ambiguità. Queste strutture imposte hanno spesso la forma di mappe causali che contengono variabili collegate fra loro, dato che queste mappe sono costruite a partire dall’esperienza passata”5.

Infine, l’ultimo passo è la ritenzione, che “comporta una operazione relativamente semplice di archiviazione dei prodotti di attribuzione di significato fortunate, prodotti che noi chiamiamo “ambienti costruiti” (enacted environments). Un ambiente costruito è un compendio puntualizzato e collegato di espressioni in precedenza ambigue”6.

Le tre operazioni di attivazione, selezione e ritenzione riassumono il processo di scoperta/costruzione di senso a partire dall’esperienza. Il processo ha il movimento oscillante di un pendolo: prima l’osservatore muove alla scoperta dell’ambiguità del mondo, passaggio necessario per poter dissolvere nel dubbio le sicurezze acquisite, poi, con un movimento opposto, va in cerca di uno schema d’ordine per collegare tra loro in un nuovo senso i frammenti di esperienza ‘attivati’.

Il pendolo del sense-making oscilla senza posa tra ambiguità e certezza, tra informe e forma, tra disordine e ordine. Guai se il pendolo si fermasse ad uno degli estremi. Ci precipiterebbe o nell’abisso del caos o nell’abisso opposto di un mondo vuoto che ci paralizza.

La nostra vita cognitiva si svolge nella striscia sottile che separa ordine e caos. Ugualmente la vita di una collettività. Ogni sistema sociale, come ogni sistema vivente, è un sistema cognitivo. Non può sfuggire al movimento del pendolo se vuole rispondere alle spinte contrapposte di allineare le azioni individuali e, contemporaneamente, preservare la diversità di ogni individuo.

In questi tempi di pandemia stiamo imparando come sia difficile trovare uno schema d’azione collettiva. A nostre spese abbiamo capito che le risposte semplici, quelle banali, basate sulle categorie opposte bene/male, giusto/sbagliato, vero/falso, non funzionano. Le semplici opposizioni sono solo stampelle provvisorie, utili solo per un primo sguardo, ma poi, per essere efficaci, bisogna arricchire i ragionamenti con sfumature, eccezioni e cautele. Insomma, bisogna fare i conti con la complessità, perché la vita individuale e collettiva esiste e si sviluppa solo sull’orlo del caos, una terra di confine perennemente agitata da urti e mescolamenti.

Note

1 Per avere una idea dei mescolamenti che avvengono nelle terre di confine suggerisco la lettura del libro di Paolo Rumiz, Trans Europa Express, Feltrinelli, 2012. Un viaggio verticale di 6000 km a zig-zag nelle terre di confine tra Europa e Russia che vanno da Rovaniemi sul Mar Baltico a Odessa sul Mar Nero. Dice Rumiz: “Sulla Frontiera la gente mi spiazzava sempre, mai i cliché ed era sempre distante dai centri politici e amministrativi del suo paese”. Già solo i nomi delle regioni attraversate evocano un fantastico spaesamento: Botnia, Carelia, Livonia, Curlandia, Latgallia, Mansuria, Polesia, Rutenia, Podolia, Bucovina. Se, invece, volete vedere immagini di un mescolamento di pensieri, desideri e paure, cercate su Google Immagini “marginalia medieval manuscripts”, e troverete una galleria fantastica di assemblaggi di corpi animali e umani: tentativi di dare forma al tumulto di emozioni che agitava l’animo medievale.
2 Karl Weick, Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi. Torino, ISEDI, 1993 (Ed. or. 1969).
3 Weick, ed.it. 1993, p. 184-185.
4 Idem, p. 185.
5 Idem, p. 185-186.
6 Idem, p. 186.