Parlare della Divina Commedia è sempre per me una splendida occasione per godere di qualche sorso di altissima poesia e di bellezza nel cammino, non sempre pianeggiante e scevro di difficoltà, della vita; se è vero che la poesia, la grande poesia, diventa uno strumento (molto quotidiano eppur nobilissimo, feriale ma straordinariamente fecondo) per “scavare e donare a chi l’ascolta, non tanto un concetto ma un’esperienza” di bellezza e un’esperienza di vita, che ci invita a saper guardare in tre direzioni: verso se stessi, verso gli altri e verso Dio (così Papa Francesco, nella prefazione scritta – per la prima volta da un Pontefice – al libro del giovane poeta Luca Milanese, che si avvale anche della postfazione firmata dal direttore della Rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica. padre Antonio Spadaro).

Questo stupendo viaggio oltremondano – con una infinità di importanti temi (religiosi, morali, sociali, culturali e politici) e una foltissima schiera di personaggi (con alcuni memorabili ritratti passati alla storia della letteratura mondiale) – ci dona continuamente (dunque anche oggi) un mirabile equilibrio tra sapienza cristiana e quotidianità, tra eternità e tempo, dimostrando come la poesia sia teologia, ma anche come la teologia possa essere poesia. Del resto alla luce di questa profonda “missione” di Dante si comprende meglio anche la duplice motivazione nella scelta dell’uso della lingua volgare: sia poter far comprendere a tutti ciò che li riguarda (in quanto la vita e il suo mistero interessano tutti), e sia per una più coerente aderenza della parola alla vita reale; in quanto “la lingua materna è privilegiata, perché essa è ‘lingua della natura, mentre l’altra è prodotto di artificio’… Dante ha di mira la storia (pur partendo dalla sua vicenda personale) e, con la sua scelta del volgare, si sente espressamente responsabile di fronte al popolo” (v. B. Forte, “Sublime bellezza ed etica nell’Alighieri secondo Hans Urs von Balthasar - La teologia poetica di Dante”, in L’Osservatore Romano del 10 maggio 2021, pag. 9).

D’altronde, come ben evidenziato dal cardinale Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del Comitato vaticano per le celebrazioni del settimo centenario della morte del poeta): “La teologia non è solo una questione di alcuni specialisti ma dev’essere a livello di tutti i fedeli, come approfondimento della fede, e in seconda istanza è un fenomeno culturale fondamentale”.

In questo senso Dante è un altissimo “divulgatore” che radica il suo discorso poetico nella perfezione dottrinale, pur volendo arrivare al massimo delle possibilità comunicative (proprio ricorrendo alla forza e alla bellezza delle immagini poetiche), anche per contribuire ad una crescita culturale e, soprattutto, ad una rinascita spirituale. “Dante, riflettendo profondamente sulla sua personale situazione di esilio, di incertezza radicale, di fragilità, di mobilità continua, la trasforma, sublimandola, in un paradigma della condizione umana, la quale si presenta come un cammino, interiore prima che esteriore, che mai si arresta finché non giunge alla meta. Ci imbattiamo, così, in due temi fondamentali di tutta l’opera dantesca: il punto di partenza di ogni itinerario esistenziale, il desiderio, insito nell’animo umano, e il punto di arrivo, la felicità, data dalla visione dell’Amore che è Dio”. Così Papa Francesco, nella Lettera Apostolica Candor Lucis aeternae del 25 marzo 2021, nel VII centenario della morte di Dante.

Per questo “Il Poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione”. Così scrisse Papa Paolo VI, nella Lettera Apostolica Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965, nel VII centenario della nascita di Dante.

E come ha ricordato Papa Francesco nella citata Lettera Apostolica, riportando ancora il pensiero di Papa Paolo VI: “In Dante tutti i valori umani (intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili) sono riconosciuti, esaltati; e ciò che è ben importante rilevare, è che questo apprezzamento e onore avviene mentre egli si sprofonda nel divino, quando la contemplazione avrebbe potuto vanificare gli elementi terrestri”. Infatti, l’opera di Dante è un eloquente esempio per “dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza”. Così scrisse Papa Benedetto XV, nella Lettera Enciclica In Praeclara Summorum del 30 aprile 1921, nel VI centenario della morte di Dante.

Soffermandoci brevemente su questo intimo rapporto tra “tempo” e “beatitudine”, tra cose terrestri e realtà celesti, possiamo osservare che Dante realizza quello che già i Padri della Chiesa chiamavano “divinizzazione” dell’umano, vale a dire “quell’admirabile commercium”, quel prodigioso scambio per cui, mentre Dio entra nella nostra storia, attraverso il mistero dell’Incarnazione, “l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati” (così Papa Francesco nella citata Lettera). Del resto lo stesso Dante afferma:

State contenti, umana gente, al quia;
ché se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.

(Purg. III, 37)

Ecco allora il punto centrale dell’opera dantesca: la capacità di fare in modo che il peso dell’umano non distrugga il divino che è in noi, né la grandezza del divino annulli il valore dell’umano. Per questo, come ha chiaramente indicato il cardinale Ravasi: “Il tema capitale teologico è l’intreccio tra il divino e l’umano e quindi la possibilità di Dio di avere un volto umano e di una religione incarnata, che non decolla dalla realtà verso cieli mistici ma ha alla base il tempo e la storia e d’altra parte la tensione verso la trascendenza, l’eterno e l’infinito”. Ecco la voce del poeta:

Io, che al divino dall’umano,
all’etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano
di che stupor dovea esser compiuto!

(Par. XXXI, 37)

Il tema allora è quello di arrivare al divino dall’umano, vivendo bene il tempo presente, che è l’unico vero “tempo di Dio” del nostro insostituibile impegno, della sua irrinunciabile Grazia - in cui siamo chiamati ora e qui – a fare il bene meglio che possiamo, senza pericolosi rinvii, o nostalgici abbandoni ai tempi passati.

Come predicava il grande teologo protestante Dietrich Bonhoeffer nel 1928: “C’è solo un’ora davvero significativa in tutta la storia del mondo: il presente… Il cristiano non è né moderno né antico, ma serve il suo tempo (senza giudicarlo). E solo così nel mezzo del nostro tempo incontreremo la santa presenza di Dio” (“Il cristiano serve il suo tempo”, in L’Osservatore Romano del 27 gennaio 2021, pag. 5). Anche lo scrittore Pier Angelo Soldini ha scritto in Il giardino di Montaigne: “Sentirsi in disaccordo con il proprio tempo può essere anche una colpa. Non dimenticarlo mai”.

Ma oltre a questo giungere al divino dall’umano, vivendo il tempo presente, vi è anche la conservazione-trasfigurazione dell’umano nell’Amore divino, che lascia l’impronta dei doni terreni (da Dio comunque elargiti) nella gloria futura. Dante sa leggere in profondità il cuore dell’uomo, e riesce a leggere nei suoi molteplici personaggi un’ansia e una speranza di vita. “Egli si ferma ad ascoltare le anime che incontra, dialoga con esse, le interroga per immedesimarsi e partecipare ai loro tormenti oppure alla loro beatitudine”:

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;
e caddi come corpo morto cade.

(Inf. V, 137)

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato che alla sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza delli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

(Pur. XXX, 34)

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?

(Par. III, 64)

La cosa comunque sorprendente – e teologicamente giustissima – è che tutti questi personaggi conservano nell’aldilà le stigmate della loro umanità, le caratteristiche personali e professionali della loro vita, dimostrandoci due cose: la prima che tutta questa infinita varietà di doni e talenti è voluta e distribuita da Dio, per il bene dei singoli e, soprattutto, della comunità:

E se ‘l mondo là giù ponesse mente
Al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avrìa buona la gente.
Ma voi torcete alla religione
Tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone:
onde la traccia vostra è fuor di strada.

(Par. VIII, 142).

La seconda, che tra noi viventi e la schiera dei trapassati - pur esistendo, secondo gli imperscrutabili disegni divini, una fondamentale separazione (come non ricordare – per analogia - la risposta di Abramo al ricco epulone: “Tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi”, (Luca, 16,26) – esiste una misteriosa ma reale “trascendente continuità” e comunicazione (c.d. “comunione dei santi”); per cui il mondo invisibile (che deve in linea di principio rimanere tale – salvo ovviamente le copiosissime ed eccezionali testimonianze dei Santi che hanno avuto segni, miracoli e apparizioni del Regno di Dio) rappresenta quasi l’altra faccia (nelle ormai raggiunte infinite perfezioni divine) della nostra realtà visibile. Certo è difficile se non per noi quasi impossibile immaginare la ricchezza dell’aldilà. “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”; tuttavia “a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio” (1 Corinzi, 2,9-10).

Ecco allora che gli Angeli e i Santi – mantenendo le loro caratteristiche e secondo i meriti guadagnati davanti a Dio (e così tutti noi, se sapremo corrispondere alla universale vocazione umana alla santità, cioè alla chiamata di Dio alla nostra piena felicità e realizzazione) - hanno questo straordinario compito, nell’aldilà: quello di poter contribuire – secondo il divino volere (che massimamente rispetta la libertà umana, e tuttavia guida e sorveglia i suoi passi) – al “governo di Dio” del mondo. Da qui la radicata tradizione della Chiesa dei Santi protettori di qualunque umana attività o condizione, in base proprio al personale percorso di vita ed ai talenti manifestati durante il pellegrinaggio terreno. “Le anime dei giusti… nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro”, (Sapienza, 3,7); ed ancora “Beati i miti, perché erediteranno la terra”, (Matteo, 5,5).

Il discorso, ovviamente, sarebbe troppo lungo, ma è molto bello (e biblicamente fondato, oltreché ecclesialmente vissuto e testimoniato) pensare alla misteriosa “vicinanza” di Dio – nei suoi Angeli e nei suoi Santi – al nostro fragile e sublime cammino esistenziale. Dante – con le sue straordinarie intuizioni poetiche – riesce dunque con il dono della fede (che non solo non offusca la ragione, ma ne potenzia la capacità indagativa e conoscitiva) a parlare delle cose visibili col rispetto di quelle invisibili, e a parlare di quelle invisibili con la confidenza di quelle visibili, offrendoci così un grande affresco sulle vicende del cuore umano ma anche sulle future prospettive di salvezza, invitando l’umanità a lasciare “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. XXII, 151) per poter “giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità” (così Papa Francesco, nella citata Lettera).